Antonino Fedele


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Gli Statuti di Lonato del 1412

Opere proprie

GLI STATUTI DI LONATO DEL 1412                                                            

di Antonino Fedele - Università degli Studi di Brescia

Relazione all'Assemblea Generale dei Soci della Fondazione «Ugo da Como» tenuta in occasione della seduta solenne del 19 giugno 1999

(in «Commentari dell’Ateneo di Brescia» per il 1998)


    Sig. Presidente, gentili Signore e Signori,

    quando con tanta cortesia sono stato invitato a intrattenere le SS. LL. sugli Statuti della Comunità di Lonato del 1412, ho provato tanto piacere che ho subito ringraziato e, dato l’interesse che da tempo vado coltivando per la legislazione statutaria medievale, ho accolto di buon grado l’invito, ma evidentemente lì per lì non mi sono reso conto che mi sarei trovato in presenza di un siffatto uditorio di fronte al quale, mi credano, ora mi sento davvero piccolo piccolo.
    Tra l’altro avrei dovuto tenere anche presente che il tempo messomi a disposizione è ben poco per un tema così complesso che a nessuno, tanto meno a me, – pur provenendo da studi umanistici la mia formazione culturale è di carattere letterario piuttosto che giuridico – a nessuno, dicevo, è consentito liquidare con quattro parole messe insieme in qualche maniera, neanche quando dovesse trattarsi di un semplice orecchiante della materia. Il peccato d’incoscienza da parte mia, pertanto, è stato grande, ma so che la bontà delle SS. LL. è altrettanto grande per cui mi ritengo già perdonato, anche perché, per non tediare alcuno, limiterò il mio intervento ad alcune considerazioni di carattere generale e ad alcuni dati salienti che caratterizzano detti Statuti.
    Perché un medico, prima di fornire le indicazioni terapeutiche necessarie per la risoluzione di un caso clinico, procede alla formulazione di una diagnosi, e, per poterlo fare, parte proprio dall’anamnesi del paziente, sia prossima che remota? Analogamente, perché, nel campo penale, la corretta risoluzione di un caso giudiziario è sempre preceduta da una serie di indagini a tutto campo, ivi compresi i trascorsi e la situazione ambientale da cui l’imputato proviene? E poi, perché per motivare un qualsiasi provvedimento giurisdizionale, e soprattutto quello relativo ad una sentenza, al giudice non basta conoscere sic et simpliciter la descrizione della fattispecie, gli eventuali riscontri e le relative prove dedotte al suo giudizio? Evidentemente perché la motivazione per essere inoppugnabile e soprattutto convincente dev’essere adeguatamente articolata e sorretta da tutti gli elementi di giudizio di cui gli è stato possibile venire in possesso.
    Non v’è dubbio, quindi, che per cogliere e interpretare i segni del proprio presente e per leggere con sufficiente approssimazione il proprio futuro l’uomo debba inevitabilmente rivolgersi al proprio passato, sia prossimo che remoto. E se ciò vale sul piano strettamente individuale, a maggior ragione è da tenere nella massima considerazione ove trattasi di una Comunità, qualunque ne sia la natura o la dimensione, giacché, in virtù del noto principio di causalità, la cui presenza sul piano sia fisico che chimico, biologico e morale, dall’ordinamento naturale, peraltro, è ampiamente attestata come immanente nell’universo mondo, le molteplici implicazioni dei complessi fenomeni che si verificano nel suo ambito spesso finiscono per assumere una rilevanza tale da non consentire di individuarne chiaramente la portata. D’altronde, checché se ne voglia pensare, l’esperienza ormai plurimillenaria insegna che quando un ordinamento giuridico non è fondato sul rispetto dell’ordinamento naturale esso non può che caratterizzarsi come una superfetazione, come un vero e proprio strumento in mano al più forte che, seppure in rappresentanza di una maggioranza qualificata, l’ha voluto porre in essere, e per ciò stesso, presto o tardi, è destinato al fallimento con le incalcolabili conseguenze che automaticamente sempre ne derivano.
    Sulla base di simili considerazioni, tra le attività fieristiche lonatesi in programma per il 1999, ben si colloca, dunque, la manifestazione voluta e organizzata dalla locale sezione di Amnesty International in collaborazione con questa Fondazione e la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Brescia, le quali, ciascuna nell’ambito delle rispettive finalità istituzionali, nell’occasione intendono dare il loro contributo all’affermazione di valori tutt’altro che trascurabili sul piano sia culturale che sociale.
    Infatti, siccome la giustezza di una causa spesso comporta la necessità di intraprendere delle lotte dure, difficili e prolungate nel tempo prima di ottenere la convergenza e la condivisione di tutti, o quanto meno della maggioranza chiamata a prendere le decisioni del caso, giacché gli egoismi e gli interessi particolari che caratterizzano la quotidianità altrettanto spesso distraggono e costringono a moltiplicare gli sforzi, si rende quanto mai necessario indagare sul passato per individuare tutte quelle situazioni la cui stratificazione si sia eventualmente rivelata fuorviante o comunque determinante nella formazione dell’opinione pubblica e nell’operazione delle scelte che sono state adottate lungo il corso dei secoli.
    Lo studio diacronico del diritto, pertanto, condotto direttamente su tutti i documenti disponibili, se è vero che da una parte per gli addetti comporta un lavoro talvolta estenuante per il loro reperimento, la loro catalogazione e la loro interpretazione secondo i più avanzati criteri scientifici, dall’altra è altrettanto vero che questa è l’unica via da percorrere se ci si vuole rendere conto il più esattamente possibile di quali e di quante possano essere considerate vere e proprie conquiste sul piano sia individuale che collettivo e di quali e quante, invece, siano le antinomie, le contraddizioni o, più semplicemente, le pecche che, non nascondendo la loro presenza in sede sia dottrinale che giurisprudenziale, tuttora pesano negativamente sulla civiltà giuridica e sui testi legislativi vigenti, nonché dell’evoluzione che il diritto tout court è andato subendo nel tempo e, soprattutto, dell’oggettiva validità attuale dei traguardi da esso raggiunti.
    All’alba del secondo millennio dell’era volgare, la situazione politica che si era venuta a determinare anche in Italia era tale per cui fu possibile che, nell’ambito delle due istituzioni universalistiche allora esistenti, l’Impero in temporalibus e la Chiesa in spiritualibus, cominciassero a prendere corpo ed a farsi strada altre istituzioni minori, tra cui spiccarono i liberi Comuni, particolari realtà sociali che, seppure a vario titolo, nel breve volgere di alcuni decenni, grazie alla forte spinta centrifuga in senso autonomistico proveniente dai loro stessi abitanti, già nel XII secolo, dettero luogo ad alcune originali esperienze di moderna organizzazione comunitaria mediante i primi tentativi di legislazione autoctona, riuscendo nel tempo stesso a farsi riconoscere gli ordinamenti che a tal fine nel frattempo essi stessi si diedero e che, appunto, vanno sotto la denominazione di Statuti.
    Con il termine statuto (dal verbo latino statuere = porre, stabilire, decidere, ecc.), appunto, s’intende significare ciò che è stabilito; e, per quanto concerne i Comuni medievali, con lo stesso termine s’intese indicare il contenuto di una decisione, autonomamente adottata dall’organo a ciò preposto e finalizzata alla regolamentazione complessiva, su apposite basi normative, della vita politica, economica e sociale dell’intera Comunità che ne era destinataria.
    Sempre nel XII secolo, se da una parte la riscoperta dell’antico diritto romano pazientemente operata dai maestri della Scuola di Bologna, attraverso la rilettura e l’interpretazione del Corpus iuris civilis voluto e realizzato sei secoli prima da Giustiniano, induceva a ritenere che fosse necessario che l’Impero si reggesse su un unico diritto, appunto quello romano opportunamente affiancato ed integrato da quello della Chiesa che, peraltro, vi ravvisava il fondamento della propria legittimazione temporale, dall’altra la partecipazione collettiva delle coscienze alla rinascita immediatamente seguita allo scoccare del nuovo millennio reclamava prepotentemente il riconoscimento, anche sul piano giuridico, delle realtà fattuali che ai più diversi livelli, in quegli anni di particolarismi e di privilegi vertiginosamente implementati dal progressivo dissolvimento del sogno della suprema autorità centrale che si era fatta garante dell’unità, si erano venute a determinare e che proprio nel mondo del diritto potevano cercare e trovare il loro referente privilegiato.
    Dal punto di vista giuridico tutto ciò non poteva non comportare dei problemi anche di rilevanza fondamentale. Primo tra tutti quello dello ius statuendi che, a sua volta, si poneva all’attenzione generale sia sotto il profilo della progressiva affermazione del diritto da parte delle città di disporre di una propria iurisdictio intesa non solo come capacità di esercitare poteri giurisdizionali, ma anche e soprattutto come idoneità ad emanare norme con efficacia vincolante per i propri membri e, quindi, di regolare autonomamente materie che esse ritenevano appartenere alla propria competenza, sia sotto quello delle proposte che a tal fine venivano avanzate a getto continuo dagli stessi giuristi medievali preoccupati di giustificarne il rapporto con il diritto universale. In altri termini: come superare la contraddizione che gli stessi giuristi avevano generato, cioè come conciliare l’esistenza di una capacità normativa dei Comuni, ormai divenuta incontestabile e indifferibile, con un sistema di fonti in cui l’esercizio del potere legislativo era stato riservato soltanto all’Imperatore?
    Dapprima si pensò che il passo decisivo in tal senso potesse individuarsi nel Privilegium pacis Constantiae del 1183 con il quale l’Imperatore Federico I, detto Barbarossa, pur non ammettendo esplicitamente il diritto da parte dei Comuni di darsi delle leggi proprie, alle Città che avevano partecipato alla dieta aveva concesso il diritto di utilizzare le consuetudines vigenti ab antiquo per la soluzione delle controversie locali. In un secondo momento, non potendosi attribuire efficacia generale ad un atto unilaterale e, per di più, dal contenuto evidentemente speciale che in quanto tale poteva essere revocato in qualsiasi momento, la dottrina, pur considerando che, non avendo i sovrani mai posto in essere alcun atto inteso ad ostacolare in qualche modo l’attività legislativa locale, ben a ragione si poteva pensare all’acquisizione di tale diritto per prescrizione, ritenne di ricorrere ugualmente alla compilazione giustinianea nella quale, appunto, sono contenute numerose disposizioni in materia di efficacia delle leges municipales e delle leges civitatum. Ma al convincimento generale che lo ius statuendi fosse un aspetto della iurisdictio si giunse successivamente, allorquando si sostenne, e questa volta in via definitiva, che ogni gruppo organizzato di persone fosse nativamente titolare del diritto all’autodeterminazione ed all’autogoverno, seppure da esercitarsi entro i limiti fissati da un ordinamento generale sovraordinato.
    Pertanto, mentre il giurista medievale in occasione della riscoperta del diritto classico aveva ritenuto che per lex si dovesse intendere la norma generale emanata dall’autorità superiorem non recognoscens, e per statutum il diritto particolare la cui fonte era rappresentata dalla volontà di quei soggetti che, non essendo separati dal corpo dell’Impero ma ad esso subordinati, erano privi di libertà assoluta in materia legislativa, con l’affermazione politica dei Comuni i termini mutarono significato e per lex in senso stretto si cominciò ad intendere la norma emanata in sede locale e che, pertanto, divenne fonte primaria del diritto.
    Tale assunto fu poi portato alle sue estreme conseguenze nel XIV secolo dal noto giurista Baldo degli Ubaldi (1319-1400), il più strenuo sostenitore della libertà normativa dei Comuni, il quale, prescindendo dal concetto di acquisizione del diritto per prescrizione e da ogni altra considerazione dottrinale precedente, affermò con forza che ad ogni Comunità, sicut omne animal regitur a suo proprio spiritu et anima, la possibilità di autodeterminazione andava riconosciuta per diritto naturale.
    Il fenomeno della legislazione statutaria, pertanto, a partire dal 1183, cioè dalla pace di Costanza, cominciò ad assumere le notevoli proporzioni che tutti conoscono, ma esso andò prendendo corpo poco a poco attingendo a fonti di varia natura, dalle consuetudines formatesi in età altomedievale sulla base dei nuovi precetti giuridici provenienti in parte dalla tradizione classica ed in parte da quella germanica, ai brevia, o promissioni, cioè ai documenti tipici dell’età podestarile attestanti il funzionamento dell’ordinamento istituzionale del Comune, ed alle leges propriamente dette con le quali, dapprima alla spicciolata e poi in modo via via sempre più organico, il Comune continuò ad attendere al governo vero e proprio della Città.
    E’ in questo quadro che si collocano gli STATUTA CIVILIA ET CRIMINALIA SPECTABILIS CIVITATIS LONADI, il cui testo da Gianfrancesco Gonzaga, duca di Mantova, fu approvato, confermato e ratificato il 1° gennaio 1412, come risulta dal relativo verbale che, su suo specifico mandato, vi annotò il suo segretario Bartolomeo Bonora.
    Per la fortuna degli studiosi di storia del diritto italiano, e, più in generale degli appassionati di storia patria, presso la biblioteca di questa stessa Fondazione «Ugo da Como», unitamente ad altri numerosissimi ed interessanti documenti di carattere giuridico, di tale testo statutario è custodita, in buono stato di conservazione, una copia membranacea manoscritta, registrata al n. 109 del relativo Catalogo, che, appunto, risale proprio agli anni che vanno dalla data della relativa promulgazione al 1442, allorquando Lonato, dal dominio della Signoria mantovana dei Gonzaga che vi si protraeva dal 1404, passò a quello della Serenissima Repubblica di Venezia.
    Si tratta di 126 carte, raccolte in un volume (che nel 1783 venne rilegato in pergamena), in cui, in parte in gotico-librario ed in parte in gotico-notarile, è riportato l’intero corpus statutario lonatese costituito da ben 624 statuti (298 dedicati alla materia civile e 326 a quella criminale) tutti redatti in lingua latina. Oltre alle relative rubriche, nello stesso volume figurano annotate alcune disposizioni successive di carattere integrativo di vario argomento, in lingua sia latina che volgare, la più recente delle quali risale al 1590. Infine, sul recto della I carta tuttora si può leggere la seguente nota: «Il presente statuto venne donato da Ill.mo Rev. signor D. Andrea Pandino, religioso benedettino della mensa capitolare di Lonato, l’anno 1683, 13 giugno, come nel libro delle provvisioni F. 235; quel Reverendo ha tradotto in idioma volgare detti statuti come si vede in detta parte, e detta traduzione si vede essere restata in mano del P. Sebastiano Canella».
    Tenuto conto delle linee-guida seguite anche dal legislatore statutario della Città di Lonato, risulta alquanto agevole rilevare come gli ambiti nei quali in primo luogo egli ritenne di doversi impegnare, seppure previa rielaborazione di concetti contenuti nelle numerose disposizioni precedenti, alcune delle quali possono essere fatte risalire addirittura al 1183 quando i consoli locali Boniolo Tonso e Giovanni Bona presentarono le loro istanze all’Imperatore Federico I in occasione di una sosta che questi fece a Lonato, siano stati contemporaneamente quelli di carattere più generale, il civile ed il criminale, e di rinviare ad altra data l’apposita regolamentazione degli altri aspetti della vita comunitaria, pur importanti, come, ad esempio, quella concernente le attività economiche, professionali, ecc.
    Altrettanto agevole risulta rilevare, altresì, come in materia civile il testo appaia dotato di una certa organicità e completezza e come nel sistema penale che egli intese adottare, non trovandovi posto il concetto di recupero sociale dei condannati, acquisisse particolare rilevanza quello del risarcimento del danno, per cui la maggior parte delle pene previste generalmente aveva carattere patrimoniale. Infatti molte pene di carattere afflittivo non venivano irrogate in via primaria ma in alternativa e nei casi di insolvenza di pene pecuniarie indilazionabili. Inoltre, mentre il ricorso alle pene detentive, cioè alla carcerazione, era previsto per alcuni casi molto limitati, la tortura quale mezzo d’indagine penale veniva praticata molto raramente e, a sua volta, il provvedimento estremo della pena di morte veniva adottato soltanto per i delitti più gravi che evidentemente non potevano venire soddisfatti attraverso un risarcimento.
    Ad ogni buon conto, pur in presenza di molte lacune, specie per quanto attiene alla normativa sulla legge in generale, e di molti elementi di disorganicità che caratterizzano particolarmente gli statuti criminali, a scorrere quelle carte, anche tra quanti hanno scarsa dimestichezza con i testi giuridici antichi non è chi non si avveda del valore che, ai fini della ricerca storiografica, esse assumono sul piano documentale. E ciò soprattutto ove si consideri che, nell’epoca delle profonde trasformazioni politiche e sociali in cui videro la luce, esse, come gli analoghi corpi statutari pressoché coevi di tantissimi altri Comuni italiani, possono considerarsi l’espressione autentica di una delle tappe più importanti che la storia del diritto italiano ha registrato. Inoltre, esse rappresentano un vero e proprio spaccato della vita quotidiana di una Comunità che, seppur di piccole dimensioni, seppe ugualmente darsi le regole fondamentali della civile convivenza sulle quali, mutatis mutandis, tuttora continua a reggersi e a governarsi. Per questo già da queste righe è doveroso sottolineare come l’acquisizione di alcuni principi da parte della scienza giuridica possa essere fatta risalire a quegli uomini ed a quegli anni che pur sembrerebbero essere tanto lontani dai nostri giorni.
    Quando, cinque anni fa, la Grafo edizioni di Brescia ha pubblicato il mio volume Gli Statuti criminali della Comunità della Riviera del lago di Garda del 1386, Mino Martinazzoli, che, bontà sua, si è compiaciuto di scriverne la Presentazione, non a caso l’ha sottotitolata La vitalità della memoria. E già! L’uomo senza la memoria del proprio passato è un essere privo di identità e, come tale, è destinato a non avere neanche un futuro al quale guardare. Egli, come un naufrago nel mare aperto, non avendo un punto di riferimento, non può fare altro che annaspare e poi annaspare ancora, ma, non sapendo quale direzione prendere, non può che andare incontro a morte sicura. Analogamente, un popolo senza memoria del proprio passato non può avere coscienza del proprio presente e, quindi, non può avere un futuro cui tendere con ragionevole cognizione di causa.
    L’Autore biblico, già in tempi meno confusi dei nostri, in cui non era certo la tecnologia a pretendere di dominare il mondo contribuendo non poco a ottundere sia i cuori che le menti, osservava: Nihil novi sub sole!, quasi a volere sottolineare che già allora tutto era stato scoperto anche se non tutto era a conoscenza di tutti; e ciò affinché nessuno potesse più scrollarsi di dosso la responsabilità della propria dignità. A questo punto, però, sorge il legittimo sospetto che ancora oggi ci sia molto da riscoprire piuttosto che da scoprire e che, attraverso le opportune ricerche, sia quanto mai utile e interessante riappropriarsi degli immensi tesori di cui i nostri padri ci hanno fatto eredi, riconoscendo umilmente e valorizzando doverosamente quanto essi ci hanno lasciato.
    Mentre ringrazio vivamente tutti Loro per la cortese attenzione prestata, mi sia consentito, sulla base delle considerazioni sin qui fatte, trarre, in chiusura, due auspici.
    In primo luogo, rivolgendomi alle giovani generazioni, che non si stanchino mai di ricercare, al fine di sorprendere la verità là dove essa si nasconde, senza lasciarsi mai sorprendere da essa cedendo acriticamente alle prime risposte, soprattutto se di seconda mano: per loro e per le generazioni a venire quello sarebbe davvero un brutto giorno, nigro signando lapillo. Non v’è dubbio che tutto ciò, ovviamente, costerà molta fatica, ma anche se tutti sanno che, dacché mondo è mondo, è più facile scendere anziché salire, io sono certo che essi preferiranno salire anziché scendere.
    In secondo luogo, rivolgendomi a tutte le autorità presenti, dal padre e dalla madre di famiglia a chiunque rivesta il delicato ruolo di insegnante, di guida spirituale, di datore di lavoro, di pubblico amministratore, di autorità costituita, che vengano promosse e adottate coraggiosamente, responsabilmente e prioritariamente tutte le iniziative e tutte le misure possibili, anche di carattere economico, affinché, specialmente i capaci e meritevoli, qualunque sia il settore cui intendono dedicare le loro energie, si sentano sempre più incoraggiati, sempre più stimolati e sempre più adeguatamente assistiti lungo i percorsi, duri ma pur sempre interessanti e proficui, della ricerca.



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