Antonino Fedele


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Parafrasi del carme ‘Dei sepolcri’

Opere proprie

    PARAFRASI                                                                                                          
    di Antonino Fedele

    UGO FOSCOLO, Dei Sepolcri.

    Ugo Foscolo, nato a Zante (Grecia) il 6 febbraio 1778, morto a Turnham Green (Gran Bretagna), nei pressi di Londra, il 10 settembre 1827 e, a traslazione del suo corpo avvenuta settant’anni dopo, ora sepolto nella chiesa di Santa Croce in Firenze, compose questo carme, quasi di getto, nell’estate del 1806, lo titolò Dei Sepolcri e lo dedicò all’amico Ippolito Pindemonte. Più che una lettera filosofica, come qualcuno lo definì, esso può ritenersi un vero e proprio inno alla vita, seppure considerata, su ispirazione dell’illuminismo in quel tempo predominante, nel senso esclusivamente materialistico. Causa prossima di tale composizione fu la polemica infuocata che, soprattutto in Francia, seguì all’emanazione nel 1804 di un editto, da parte di Napoleone, che, per ragioni igieniche, imponeva la sepoltura dei cadaveri fuori delle mura delle città e non più all’interno delle chiese, nonché, per ragioni politico-sociali, secondo i dettami-cardine della Rivoluzione Francese, iscrizioni sepolcrali uguali per tutti e prive di ogni altra indicazione superflua. Ippolito Pindemonte, sulla base dello stesso motivo prossimo ispiratore, secondo l’aria preromantica caratteristica del tempo, aveva già scritto dei versi, in verità piuttosto modesti, che aveva titolato Dei cimiteri e dedicato al Foscolo. Da rilevare che, proprio in quei giorni, a Venezia, nel salotto della contessa Teotochi Albrizzi, egli aveva avuto modo di intrattenersi sull’argomento in una discussione piuttosto appassionata con lo stesso Foscolo. Non appena l’editto napoleonico entrò in vigore anche in Italia, Foscolo, senza interporre alcun indugio, decise di pubblicare il proprio carme, cosa che fece nell’aprile del 1807 a Brescia, per i tipi dell’Officina Tipografica Bettoni.
    Tale componimento, oltre a rappresentare formalmente un genere di poesia impegnato e solenne, indubbiamente ha un carattere che può ritenersi innovativo in quanto, grazie alla rigorosa struttura argomentativa che lo distingue, raggiunge pienamente l’effetto dimostrativo del suo assunto, cioè di rendere comprensibile la funzione delle tombe e quella eternatrice della poesia, nella sostanza ha anche una forte carica di ordine razionale, oltre che sentimentale, con la quale l’Autore, inducendo a meditare sulla morte, riesce ad attualizzare il rapporto dell’umanità, nel suo complesso, tra il passato e il presente.
    Il carme, che si apre con l’epigrafe Deorum Manium jura sancta sunto (I diritti degli dèi Mani siano inviolabili) tratta dal De legibus di Cicerone, con la quale Foscolo intese conferire all'opera un certo carattere di sacralità, è costituito da 295 versi endecasillabi sciolti e, a sua volta, si può suddividere in quattro parti: Esordio (vv. 1-90), Funzione dei sepolcri (vv. 91-150), Le tombe dei Grandi (vv. 151-212), Funzione del poeta-vate e della poesia eternatrice (vv. 213-295).


    
Esordio (vv. 1-90):


    Il sonno della morte è forse meno duro all’ombra dei cipressi e dentro le urne confortate dal pianto dei superstiti? Quando il Sole per me non feconderà più la terra e questa non offrirà più la bella moltitudine di piante e di animali [che ci circonda], e quando le ore future, cariche di illusorie speranze, non danzeranno più dinanzi a me, né al mio cuore parlerà più lo spirito delle vergini Muse e dell’amore, unico principio immateriale considerato immortale per la mia vita errabonda, quale sollievo il tempo passato potrà ricevere da una lapide che distingua le mie dalle innumerevoli ossa che la morte dissemina sulla terra e nel mare? E’ proprio vero, Pindemonte! Anche la speranza, ultima dea, evita le sepolture; un oblio totale travolge ogni cosa; una forza in costante attività, con il suo continuo movimento le trasforma; e il tempo cambia l’uomo, le sue tombe, le sue ultime tracce e ciò che è rimasto della terra e del cielo.
    Ma perché l’uomo, prima del tempo, dovrebbe negare a se stesso l’illusione, che una volta morto, lo trattiene sulla soglia dell’aldilà? Quando le sue orecchie non potranno gustare più le piacevolezze di cui potevano godere in vita, egli, forse, non vive anche sottoterra, se nella mente e nei cuori dei suoi cari, con le sue delicate premure, può suscitarla l’attrattiva della vita? Questa reciprocità di sentimenti affettuosi è davvero celestiale, e celestiale è questo particolare privilegio di cui gli uomini sono dotati: spesso, grazie a tale reciprocità, noi si vive con l’amico estinto e l’amico vive con noi se la terra, che maternamente lo accolse bambino e lo nutrì offrendogli il proprio grembo come luogo di accoglienza d’importanza fondamentale, rende sacri i suoi resti preservandoli dai guasti del tempo e dall’empietà di gente sacrilega, una lapide ne riporti il nome e un’amorevole pianta ricolma di fiori odorosi ne consoli le ceneri con la tenerezza della sua ombra.
    Soltanto chi non lascia eredità di affetti ha poca gioia dell’urna; e se, dopo le esequie, si sofferma a considerare la situazione, vede la propria anima errare tra il dolore di quanti si trovano sulla riva dell’Acheronte (in attesa di essere trasportati sull’altra sponda), oppure di rifugiarsi sotto le grandi ali della misericordia divina, ma lascia le proprie ceneri disseminate per campi incolti, dove nessuna donna innamorata possa innalzare una preghiera, né un viandante solitario possa sentire il sospiro che dalla tomba a noi manda la Natura.
    Eppure ora una nuova legge dispone che le tombe si trovino fuori dagli sguardi pietosi e vieta che vi sia riportato il nome del defunto. Ecco perché, Talia, il tuo sacerdote (il poeta Giuseppe Parini) giace senza tomba; egli, dedicandosi alla poesia, nella sua modesta dimora, con tanto amore coltivò un alloro con i cui ramoscelli intrecciava corone da appendere al tuo capo; e tu con il tuo sorriso gli ispiravi i versi che pungevano il viziato signore lombardo il cui orecchio si sentiva accarezzato soltanto dal muggito dei buoni che, tra l’Adda e il Ticino, con una copiosa produzione alimentare, riuscivano a saziare il suo stato di godereccia inoperosità. O bella Musa, dove sei? Tra le piante, dove mi ritrovo a provare un ardente desiderio di rivedere la mia patria lontana, non sento emanare lo squisito profumo dell’ambrosia, indubbio segnale della presenza della tua divinità. Eppure, tu venivi e gli sorridevi sotto quel tiglio che, con le sue fronde dimesse, ora si agita bruscamente perché, con la sua ombra gentile e rasserenatrice, non può recare alcun conforto alla tomba del vegliardo. Forse vaghi continuamente tra le umili sepolture in cerca del luogo dove riposa il capo sacro del tuo Parini? La sua città (Milano), dissoluta allettatrice di evirati poetastri, tra le sue mura, non [gli] dedicò alcuna tomba sotto piante ombrose, né alcuna lapide, né alcuna epigrafe; forse le sue ossa ora sono contaminate dal sangue di un ladro al quale, sul patibolo dove scontò i propri delitti, venne mozzata la testa. Senti l’ululato della cagna randagia che affamata gratta sulle fosse, tra gli sterpi e le macerie; vedi l’upupa immonda, uscita dal teschio, dove si suole riparare dai riflessi della luna, svolazzare tra le croci sparse per la triste campagna e, con il suo triste lamento, incolpare i raggi delle stelle che pietosamente splendono sulle sepolture dimenticate. O Dea, invano implori rugiade dalla notte squallida. Ahi! Sugli estinti non può crescere un fiore se non è onorato da umane espressioni elogiative e senza il pianto di un affetto.


    Funzione dei sepolcri (vv. 91-150):


    Da quando la famiglia, l’amministrazione della giustizia e la religione (cioè l’avvento della civiltà) fecero sì che le belve umane avessero rispetto di se stesse e dei loro simili, i vivi cominciarono a sottrarre all’azione deleteria delle bestie e degli agenti atmosferici i miserandi resti mortali che la Natura, secondo fenomeni che si ripetono nel tempo, assegna a ben altre finalità. Un tempo le tombe erano attestazione di magnificenza per i posteri e altari per i figli; è da esse che provenivano i responsi delle divinità domestiche e il giuramento fatto sulle ceneri degli avi è sempre stato ritenuto degno della massima fedeltà: l’amore della patria e la religiosità ad esso connessa tramandarono tale comportamento, seppure con diverse ritualità, per una lunga serie di anni. Non sempre le lapidi sepolcrali fecero da pavimento delle chiese, né il cattivo odore esalato dai cadaveri e frammisto alle volute di fumo dell’incenso impregnò l’ambiente di coloro che pregavano, né i centri abitati furono turbati dagli scheletri effigiati sulle pareti delle loro costruzioni: le madri si svegliano d’improvviso e spaventati tendono le braccia ancora scoperte sul capo del loro piccolo affinché non lo desti il sommesso lamento del defunto che chiede agli eredi il suffragio di una preghiera (la celebrazione, a pagamento, di una Messa) nella chiesa. Ma cipressi e cedri del Libano, profumando con la loro salubre fragranza lo spirare delle brezze, stendevano sopra le tombe il loro verde perenne a imperitura memoria, e preziosi vasi raccoglievano le lacrime votive. Gli amici rapivano una fiammella al Sole per portare un po’ di luce nell’oscurità delle tombe, perché gli occhi del morente cercano la luce; e tutti, morendo, mandano l’estremo anelito alla luce che fugge. Le fontane, facendo sgorgare acque benedette sui sepolcreti, alimentavano amaranti e viole; e chi, seduto, vi spargeva del latte e raccontava le proprie pene ai cari estinti, sentiva intorno un odore delicato ma intenso, come il venticello leggero che spira dai felici Campi Elisi. Questa è un’illusione benefica che rende cari alle giovani inglesi i giardini dei cimiteri suburbani, dove le sospinge l’affetto per la madre defunta, e dove, piuttosto inclini all’indulgenza, implorarono i Geni di concedere il ritorno al valoroso (Nelson) che troncò l’albero maestro della nave conquistata e ne fece la propria bara. Inutili sono le tombe dove domina la viltà, dove dorme ogni furore di gesta eroiche, dove il vivere civile è regolato dall’opulenza, dalla paura, e dove, quali malaugurate immagini dell’oltretomba, sorgono cippi celebrativi e monumenti architettonici sepolcrali. I dotti, i ricchi e il patriziato, classe dirigente del bel Regno d’Italia, già da vivi si sono procurati il posto per la loro sepoltura nei palazzi reali e, come unico vanto, ciascuno ha già il proprio stemma. A noi la morte riservi una dimora, dove posare il capo stanco, dove le alterne vicende della sorte umana facciano cessare ogni vendetta e l’amicizia non riceva in eredità alcun tesoro ma caldi sentimenti d’amore e il messaggio di un canto di libertà.


    
Le tombe dei Grandi (vv. 151-212)


    Pindemonte, le tombe dei Grandi incitano gli animi degli uomini generosi a compiere nobili imprese e ne rendono bello e santo il luogo dove esse si ritrovano tutte insieme. Quando io vidi il sepolcro dove riposa il corpo di quel Grande (Niccolò Machiavelli) il quale, nel fornire dei consigli ai governanti, in buona sostanza ne denunciò le immeritate glorie e mostrò al popolo di quali crudeltà dalle conseguenze nefaste costoro si erano resi responsabili; e il sepolcro di colui (Michelangelo Buonarroti) che, con la costruzione della basilica di S. Pietro in Vaticano, eresse una nuova sede alla Divinità (al Dio dei cristiani, non già agli dei pagani); e il sepolcro di colui (Galileo Galilei) che, scoprendo, sotto la volta del cielo, le leggi che regolano il moto dei vari corpi celesti mentre il sole, da fermo, li illumina e li scalda con i propri raggi, aprì la strada alle ulteriori scoperte astronomiche dell’Inglese (Isacco Newton); esclamai che sei una città felicissima, Firenze, per il clima salubre di cui puoi godere e per i corsi d’acqua che, scorrendo dall’Appennino, alimentano l’Arno che attraversa il tuo centro abitato! La luna, lieta per l’ambiente che ti circonda, con la sua luce d’argento riveste i tuoi colli in festa per il raccolto, e le numerose convalli, ricche di abitazioni e coltivate a oliveti, effondono un gradevole profumo che mandano verso il cielo. Firenze, tu per prima ascoltavi il poema [fosti patria] che alleggerì la collera dell’esule ghibellino (Dante Alighieri), e desti i natali ai cari genitori e la lingua a quella dolce voce di Calliope (Francesco Petrarca) che, adornando di un velo candidissimo l’amore, nudo in Grecia e nudo in Roma, lo ricollocò nelle braccia di Venere celeste, ma più beata perché, raccolte in un unico tempio, conservi le glorie italiane, forse le uniche da quando le Alpi indifese e l’onnipotente alternanza delle sorti umane ti hanno sottratto le armi e le ricchezze e, tranne la memoria della passata grandezza, tutto, poiché è proprio da dove rifulge la speranza di gloria per i giovani forti e per l'Italia, cioè da questo luogo, che prenderemo gli auspici migliori (per un futuro, a sua volta, migliore). E’ a queste tombe che Vittorio [Alfieri] venne spesso a ispirarsi: scosso dall’ira contro i numi tutelari della Patria, errava lungo l’Arno osservando i campi e il cielo e poiché nulla gli addolciva l’angoscia per la patria, aveva sul viso il pallore della morte e la dignità della speranza; ora riposa tra questi Grandi, ma le sue ossa fremono amor di patria. È proprio da queste tombe che nasce una religiosa pace e da qui un Dio infonde coraggio e forza, così come un Nume infuse la virtù e l’ira ai Greci che sconfissero i Persiani nella ben nota battaglia di Maratona, per la quale Atene consacrò le tombe ai suoi valorosi eroi. Il navigante che veleggiò sul mare dell’isola Eubea vedeva spade scontrarsi con violenza e il baluginio di elmi scintillare nella notte, e vide l’orrendo fuoco delle pire, vide fantasmi di guerrieri che, muniti di scintillanti armature, cercavano lo scontro, mentre il raccapricciante silenzio notturno che si spandeva per il campo di battaglia veniva squarciato dall’intenso frastuono di falangi, dal suono delle trombe di guerra e dall’incalzare di cavalli che scalpitavano sugli elmi dei moribondi tra il pianto, e [sentì] gli inni e il canto delle Parche.


    
Funzione del poeta-vate e della poesia eternatrice (vv. 213-295)


    Felice te, Ippolito, che da giovane viaggiasti per mare! Se il nocchiero della nave ti condusse oltre le isole dell’Egeo, certamente sentisti lo sciabordio del mare dell’Ellesponto che portò le armi di Achille sul litorale reteo, sopra le ossa di Aiace. Per gli eroi la morte è giusta dispensatrice di gloria: l’astuzia e l’essere re a Ulisse non bastarono a mantenere al sicuro l’armatura di Achille, giacché le onde, di proposito agitate dagli dei infernali, la sottrassero dal carico della sua nave raminga. E’ nei miei auspici che le Muse, stimolatrici del pensiero umano, per evocare gli eroi chiamino me che le circostanze e il desiderio di gloria mi costringono a spostarmi da luogo in luogo, da nazione in nazione. Esse siedono sulle tombe a custodia degli eroi e, quando il tempo con le sue fredde ali spazza via perfino le rovine, le Pimplee con il loro canto allietano i deserti e l’armonia vince il silenzio di mille secoli. Oggi, nella deserta Troade, i visitatori possono ammirare uno splendido luogo, reso eterno dalla presenza della Ninfa che ebbe in sposo Giove e che a Giove dette il figlio Dardano da cui discese Troia, Assaraco (figlio di Tros, il leggendario fondatore di Troia) e i cinquanta figli (di Priamo, re di Troia) e il regno della Gens Julia, cioè l’Impero Romano (attraverso il troiano Enea e di suo figlio Iulo che dette il nome alla stirpe). Ma, quando Elettra (figlia di Agamennone e di Clitennestra) sentì avvicinarsi la Parca, cioè l’ora della morte, che da questo mondo la chiamava ai Campi Elisi, rivolse a Giove quest’ultima preghiera: – Se un tempo il mio viso, le mie chiome e le dolci nottate ti furono cari, e se il destino non mi riconosce meriti maggiori, tu almeno dal cielo rivolgi lo sguardo all’amica morta, affinché della tua Elettra rimanga il ricordo –. Così pregando moriva. E l’Olimpio (Giove) singhiozzava sommessamente e, mentre annuiva con il suo capo divino (in segno di accoglimento della preghiera ricevuta), dalla sua chioma faceva piovere dell’ambrosia sulla Ninfa, per cui quel corpo e la sua tomba divennero sacri. Ivi cadde il seme da cui nacque Erittonio (figlio di Efesto e di Gea) dopo che ve lo scagliò Atena che rifiutò di accoppiarsi con Efesto, e lì furono sepolti i resti mortali di Ilo; lì le donne troiane si scioglievano le loro chiome [per piangere] e innalzavano preghiere, ahimè inutilmente, perché i loro sposi venissero risparmiati dall’incombente pericolo di morte. Qui si recò Cassandra (la profetessa figlia di Priamo e di Ecuba) e quando la divinità la ispirò a vaticinare la fine della città di Troia, qui sciolse un canto amoroso in onore di quegli eroi, qui ne accompagnava i nipoti e a quei giovanetti amorevolmente insegnava il canto di dolore e sospirando diceva: – Se mai a voi giovani da Argo (in Grecia) dove, schiavi pascerete i cavalli a Diomede (figlio di Tideo) e al figlio di Laerte (Ulisse), sarà dato di ritornare in patria, non la troverete più. [Infatti] le mura di Troia, opera di Apollo, bruceranno sotto le macerie (incendio di Troia) –. Ma le divinità patrie avranno la loro sede in questo sepolcro giacché, anche nella sorte avversa, esse mantengono la dignità del loro nome. E voi, palme e cipressi che, messe a dimora dalle nuore di Priamo e innaffiate dalle lacrime delle vedove, ben presto crescerete, proteggete i miei padri. Chi eviterà di colpirvi con la scure (cioè chi si guarderà bene dal tagliarvi) sentirà meno il dolore per la morte dei suoi consanguinei e si potrà avvicinare degnamente all’altare. Un giorno vedrete vagare umilmente un cieco (il poeta Omero) il quale, protetto dalle vostre antichissime ombre, entrerà brancolando tra le tombe, le abbraccerà e le interrogherà. I più reconditi anfratti gemeranno e la tomba narrerà la storia di Ilio (città di Troia) per ben due volte rasa al suolo e due volte risorta splendidamente ricostruita lungo le vie deserte per rendere ancora più gloriosa l’ultima vittoria del fatale Achille. Il divino poeta, placando quelle anime tormentate, con il suo canto, in tutte le terre bagnate dal grande Oceano, farà vivere per l’eternità i principi greci. E tu, Ettore, sarai onorato con pianti ovunque il sangue versato per la Patria sarà considerato sacro e innegabile motivo di sofferenza, fino a quando il sole risplenderà sulle sciagure umane.





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