Antonino Fedele


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Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte

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Vincenzo Tripodi, Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte.

Editrice: Vannini
Pubblicazione: Brescia, 1999
Descrizione fisica: p. 58; cm.17x24

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Presentazione
di Antonino Fedele


    Quando, nella primavera del lontano 1945, appena quindicenne, su dettatura dell’Autore, dattilografavo per la stampa questa Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte di Vincenzo Tripodi, chi avrebbe mai detto che, dopo oltre cinquant’anni, nella lontana terra di Lombardia, sarei stato proprio io a curarne la seconda edizione per riproporla ai cortesi lettori?
    Allora, sia per l’inesperienza dovuta alla giovanissima età, sia per la preoccupazione, non essendo un dattilografo provetto, di eseguire nel miglior modo possibile quanto stavo facendo, certamente non potevo rendermi conto che quelle poche pagine avrebbero costituito il primo punto fermo sulla storia del mio paese natio, ma dentro di me sentivo ugualmente che stavo prestando la mia modestissima collaborazione alla realizzazione di qualcosa che sarebbe durata nel tempo e che con il passare degli anni avrebbe potuto assumere una rilevanza fondamentale. Infatti, egli non ve lo appose, ma l’’opuscolo’, come amava chiamarlo, avrebbe certamente ben meritato l’esergo oraziano: Monumentum exegi aere perennius!
    Non v’è dubbio che, per cogliere e interpretare i segni del presente e per leggere con sufficiente approssimazione il proprio futuro, l’uomo si debba naturalmente rivolgere al passato, sia prossimo che remoto. E se ciò vale sul piano strettamente individuale, a maggior ragione è da tenere presente nella massima considerazione ove trattasi di una Comunità, qualunque ne sia la dimensione, giacché, in virtù del ben noto principio di causalità – la cui presenza, peraltro, dall’ordinamento naturale è attestata come perennemente immanente nell’universo mondo – le molteplici implicazioni dei complessi fenomeni che si verificano nel suo ambito spesso finiscono per assumere un’importanza tale da impedire l’esatta individuazione dei relativi processi.
    D’altronde, checché se ne voglia pensare, l’esperienza ormai plurimillenaria insegna che quando un qualsiasi ordinamento positivo non è fondato sul rispetto dell’ordinamento naturale esso non può caratterizzarsi che come una superfetazione, come un vero e proprio strumento in mano al ‘più forte’ che l’ha voluto porre in essere finalizzandolo, seppure in buona fede, al soddisfacimento dei propri interessi, e per ciò stesso, presto o tardi, è destinato al fallimento con le incalcolabili conseguenze quasi sempre negative che automaticamente ne derivano. Ma, a questo proposito, è doveroso convenire che ogni discorso sulle istituzioni giuridiche e sul diritto positivo tout court porterebbe molto lontano, anche perché quanto mai complesso; pur nondimeno, si andrebbe sicuramente al di fuori di ogni logica se si dovesse affermare che il diritto positivo non debba tener conto di quegli aspetti che, seppure di ordine metagiuridico, sono comunque parte importante e spesso determinante in quasi tutte le manifestazioni dell’attività umana, a loro volta, espressione autentica di quell’unicum in cui consiste l’irripetibile individualità di ciascuno. Infatti, tra fisica e metafisica, a ben guardare, non c’è soluzione di continuità; semmai si possa parlare di differenza, questa può farsi consistere soltanto nel rispettivo metodo di approccio e di studio, giacché a nessuna delle due spetta il diritto alla priorità. Forse queste affermazioni faranno ridere gli ‘addetti ai lavori’, ma non facevano certamente ridere il maestro Vincenzo Tripodi, vero educatore dei figli del popolo, che ispirò tutta la sua vita a questo principio fondamentale.
    Quando un collega, al direttore didattico che gli chiedeva notizie sullo stato di apprendimento degli alunni, per confermare la validità del proprio metodo ebbe a dire: «Signor direttore, ai miei alunni la grammatica esce fuori dalle tasche!», egli, ricevuta la stessa domanda, molto meno enfaticamente rispose: «Signor direttore, purtroppo devo ammettere che dalle tasche dei miei alunni la grammatica non può uscire giacché essi, per loro fortuna, non l’hanno in tasca ma nella testa e specialmente nel cuore!».
    E quando, mentre, sulla strada del ritorno dalla vicina Sinopoli, dove si soleva recare per tenere gratuitamente un corso serale di insegnamento elementare a quei ragazzi che, per ragioni di lavoro, non potevano frequentare le lezioni in orario antimeridiano, a notte inoltrata si vide avvicinare dal noto bandito Giuseppe Musolino; questi, che in occasione dei tanti processi subiti, dalla giuria popolare, della quale aveva fatto parte lo stesso maestro (se ne immagini, quindi, lo stato d’animo), era stato appena condannato in contumacia perché latitante, ebbe a dirgli: «Signor Maestro, sì, avete visto bene, sono proprio io, ma non abbiate paura. Sono qui quasi tutte le sere per farvi da scorta qualora qualche malintenzionato dovesse infastidirvi. So bene che voi avete votato contro di me all’ultimo processo a mio carico, ma so anche bene che lo avete fatto in tutta coscienza. Dovete sapere che i fatti di malagiustizia quasi mai sono da attribuire agli atti processuali sulla cui base i giurati sono tenuti ad esprimere il proprio voto, ma a chi, in buona o in mala fede, ha ‘confezionato’ quegli atti definendone, o contribuendo a definirne, quantità e qualità. So che la vostra coscienza è pulitissima, perché conosco perfettamente la vostra dirittura sia professionale che soprattutto morale, per cui camminate tranquillo e scusatemi se non tutte le sere potrò essere qui al vostro fianco!».
    Due aneddoti, questi, ai quali, data la loro emblematicità e paradigmaticità, a me non pare ci sia molto da aggiungere per lumeggiare ulteriormente la figura di questo nostro illustre concittadino.
    E’ anche per questo, quindi, che, se per un popolo lo studio della propria storia è ciò che per l’individuo è un profondo esame della propria coscienza finalizzato al miglioramento personale, sia materiale che spirituale, il futuro di ciascuno può essere letto direttamente nel proprio passato che, pertanto, bisogna sapere e volere indagare, senza stravolgimenti, o infingimenti, o presunzioni, di sorta, ma con intelligenza e tanta umiltà, in modo da riuscire a cogliervi tutti quei preziosi insegnamenti e tutte quelle utilissime indicazioni, già presenti forse soltanto in nuce, di cui, ad ogni modo, esso può essere largo dispensatore. In buona sostanza il fatto è che la dignità del presente e il germe dell’avvenire, appunto, possono rinvenirsi certamente, nella meditazione paziente, scrupolosa e disincantata del passato.
    D’altra parte non si può pensare che un popolo senza storia e senza memoria del proprio passato possa avere un futuro. Se, poi, si vuole paragonare la grande storia ad un maestoso edificio, non si può negare che questo, a sua volta, è costituito da singoli mattoni i quali, se considerati in se stessi, potrebbero anche apparire insignificanti; tutto questo per sottolineare e confermare che la macrostoria non può essere ricostruita e scritta se non sulla base della microstoria la quale, nel tempo stesso, ne rappresenta sia l’aspetto strumentale che quello sostanziale.
    Perché un medico, prima di fornire le indicazioni terapeutiche necessarie per la risoluzione di un caso clinico, procede alla formulazione di una diagnosi e, per poterlo fare, parte proprio dall’anamnesi del paziente, sia prossima che remota? Analogamente, perché, nel campo penale, la corretta risoluzione di un caso giudiziario è sempre preceduta da una serie di indagini a tutto campo, ivi compresi i trascorsi e la situazione ambientale da cui il presunto colpevole proviene? E, poi, perché per motivare un qualsiasi provvedimento giurisdizionale, e soprattutto quello relativo ad una sentenza, al giudice non basta conoscere sic et simpliciter la descrizione della fattispecie, gli eventuali riscontri e le relative prove dedotte al suo giudizio? Evidentemente perché la motivazione, per essere inoppugnabile e soprattutto convincente, dev’essere adeguatamente articolata, conseguente e sorretta da tutti gli elementi, nessuno escluso, di cui gli è stato possibile venire in possesso.
    Già nella sua Prefazione l’Autore di questa Breve monografia aveva auspicato che le poche pagine di cui essa è composta potessero servire di incitamento ad ulteriori ricerche sulle nostre radici, per cui, da parte mia, a mano a mano che in quegli anni attendevo alla mia formazione culturale di base, tante volte mi ero ripromesso di dedicarmi a tal genere di studi. Ma, nonostante il ricordo di quel tempo e di quei propositi sia rimasto sempre vivo e tuttora sia pressantemente presente nel mio cuore e nella mia mente, purtroppo le vicende della vita mi portarono molto lontano da quell’ambiente e da quei luoghi presso i quali, tra l’altro, avrei potuto operare più agevolmente, anche ai fini dell’acquisizione del materiale indispensabile per la realizzazione di un simile progetto.
    Ma di ciò non mi rammarico più di tanto in quanto non penso di avere personalmente alcunché da rimproverarmi: ad impossibilia nemo tenetur! Piuttosto mi spiace dovere constatare che a quanto auspicato oltre mezzo secolo fa da Vincenzo Tripodi, le giovani generazioni ancora non abbiano dato adeguato seguito, fatta eccezione del lodevole contributo di Caterina Iero che, documenti alla mano, con il suo volume dall’ottimo titolo Sancta Euphemia, edito nel 1997 da Laruffa in Reggio Calabria, ha fornito ulteriori notizie storiche e soprattutto alcuni preziosi spaccati di vita civile e di costume del popolo eufemiese attraverso i secoli, accompagnandoli, peraltro molto efficacemente, con un appropriato apparato fotografico.
    La Iero, infatti, ben conscia che in una materia di tal genere c’è sempre spazio per l’ultima parola, mentre in sede introduttiva precisa che l’obiettivo che si propone è quello «di offrire, a tutti coloro che sono legati ai luoghi di cui si tratta o che ne sono in ogni modo attratti, l’opportunità di approfondirne la conoscenza», a sua volta, molto opportunamente «mira a sensibilizzare i giovani eufemiesi perché dedichino maggiore cura alle attività culturali». Il libro, infatti, risulta essere un pressante invito ad un autentico «ritorno alle più sane tradizioni del nostro popolo, tramontate ad una ad una in una stanca indifferenza, in un sonnolento malessere». E’ per questo che non esita ad esclamare: «Torniamo indietro! Non per opporci al cammino luminoso ed inevitabile verso l’avvenire, ma per ritrovare nell’antico, troppo spesso dimenticato, la parte più sana di noi stessi, per attingervi quei ricordi e quelle tradizioni, al cui distacco dobbiamo tanta causa del nostro decadimento».
    A tale grido accorato, ad appena un anno di distanza, hanno fatto subito eco altre due giovani autrici eufemiesi, Carmela Cutrì e Eufemia Tripodi, con il loro bel volume Cosma e Damiano, medici-martiri-santi, nella storia del culto in S. Eufemia d’Aspromonte, edito nel 1998 da Virgiglio in Rosarno (RC) e proposto dalla tanto lusinghiera quanto incoraggiante Presentazione che si è compiaciuto farne S. E. Mons. Domenico Crusco, vescovo di Oppido Mamertina.
    A quanto pare di capire, con questo libro, seppure anch’esso di carattere divulgativo, le due autrici, oltre al paziente lavoro di ricostruzione del quadro storico-geografico sul quale tessere in forma discorsiva il ‘racconto’ della complessa vicenda terrena dei due Santi anargiri e sottolineare l’importanza che lungo i secoli essa è andata assumendo dovunque la devozione popolare nei loro confronti si sia affermata e consolidata, si sono prefisse l’altrettanto lodevole scopo, peraltro ampiamente raggiunto, di dimostrare, per quanto ce ne fosse bisogno, come la religiosità di un popolo non sia affatto disgiunta dai problemi di carattere esistenziale strettamente legati alla quotidianità che esso è continuamente chiamato a risolvere: d’altronde la Fede, non ha mai intralciato il progresso civile; semmai, quando si è operato secundum iustitiam et veritatem, essa lo ha sempre incoraggiato, applaudito e sorretto, come emerge dai risultati, anche per quanto riguarda la produzione artistica eufemiese, di questo studio sui vari documenti indagati, che, seppur non esaustivo, è indubbiamente attento, meticoloso e partecipato.
    Non è certo un caso se ad accrescere la minuscola schiera di coloro che, consciamente o inconsciamente, hanno ritenuto di corrispondere all’auspicio di Vincenzo Tripodi sia stata ancora un’altra giovane eufemiese, Antonella Federico, la quale, questa volta non più per ragioni di divulgazione, ma per interessi di ordine strettamente accademico, sempre nel 1998 ha felicemente concluso il corso dei suoi studi universitari con una dissertazione sul tema Eufemia di Calcedonia, studio intertestuale tra scritti agiografici e culto popolare. Io non ho avuto il piacere di leggere la tesi della giovane letterata sulla cui validità non nutro alcun dubbio, ma mi pare che finalmente le nuove generazioni eufemiesi molto opportunamente si stiano orientando verso la ricerca storica locale.
    In considerazione della sensibilità e dell’amore che con i loro scritti, fosse anche inconsapevolmente, hanno certamente dimostrato di nutrire per la storia patria, a tali donne, appunto, va riconosciuto il merito di aver già indicato la strada da seguire, per cui da queste pagine giunga loro il mio plauso, la mia ammirazione e tutta la mia gratitudine di concittadino.
    D’altra parte, non è forse vero che a testimoniare il Mistero della Resurrezione del Cristo di fronte al resto del mondo per prime sono state proprio alcune donne, ed esattamente quelle che gli erano state più vicine durante i momenti più tristi della sua passione e della sua morte? Non mi si dica che un simile accostamento sia da ritenersi esagerato; infatti, esso non vuole rappresentare l’unica ma l’ennesima conferma che Madre Natura ha dotato la donna di una particolare sensibilità ai fatti quotidiani e di una singolare capacità di coglierne il significato autentico nonché di penetrarne intuitivamente l’intima essenza: secondo un meraviglioso processo di reciproca integrazione, è proprio dell’uomo, poi, saperne tracciare la sintesi e, confortato ed ispirato da tal genere di penetrazione, riuscire a progettare adeguatamente il proprio futuro, quello della propria famiglia, della propria gente e dell’intera umanità.
    Peraltro, non è sempre tempo di chiedersi cos’è un bambino se non un uomo in attesa di crescere, cioè un essere umano che, sin dal suo concepimento, gli adulti devono aiutare affinché, parallelamente alla maturazione psicofisica, acquisisca tutte quelle conoscenze che gli provengono in parte da quanto, già in famiglia e nel proprio ambiente, gli viene trasmesso dalle generazioni precedenti ed in parte dall’esperienza che, volente o nolente, egli fa, sia direttamente che indirettamente, le quali, giorno dopo giorno, lo mettono gradatamente nelle condizioni di operare sempre più responsabilmente e sempre più autonomamente? E, viceversa, cos’è un adulto se non un bambino già sufficientemente cresciuto, quindi finalmente in grado di utilizzare razionalmente tutte le conoscenze di cui dispone e di incrementarne ulteriormente il patrimonio? Ma se di vera e propria crescita non si potesse parlare se non per quanto concerne l’aspetto fisico, egli quando crescerebbe? E, una volta adulto, come farebbe a credere di essere finalmente diventato anche responsabile ed autonomo qualora, ad ogni piè sospinto, dovesse dimostrare di non essere in grado di assumersi le responsabilità che gli competono e di saperle gestire in perfetta autonomia? A guidarne i passi allora sarebbero soltanto gli altri, che, in tal caso, avrebbero buon gioco su di lui, a cominciare dalle sue stesse passioni spesso incontrollate, il cui libero sfogo di certo non gioverebbe alla sua dignità di uomo libero.
    Se, poi, sapersi nato libero per lui significa anche credere di poter fare quel che gli pare e piace, evidentemente è in errore giacché in realtà egli sarà costretto a fare soltanto ciò che pare e piace agli altri o che le sue stesse passioni lo indurranno a fare: non disponendo di principi cui rifarsi per operare le scelte più opportune ogni qualvolta la vita gliene avrà presentato l’occasione o la necessità, a caratterizzare la sua condotta non sarà la libertà, di cui nativamente è pur dotato, ma la violenza che sarà indotto a perpetrare sui suoi simili, o che da parte dei suoi simili sarà costretto a subire, oppure il libertinaggio, che non è certo sinonimo di libertà; da tutto ciò l’istinto alla ribellione, le immancabili delusioni, le conseguenti incertezze, le inevitabili depressioni, il senso di sfiducia in se stesso e negli altri, e le pericolose e talvolta tragiche fughe senza ritorno.
    Eppure, mentre nell’attuale società molti minori trascorrono la loro infanzia, la loro fanciullezza e la loro adolescenza al riparo di un impenetrabile manto di iperprotezione e, per ciò stesso, in genere crescono male educati, altri, invece, essendo costretti a vivere negli stenti o nella solitudine, senza che ci sia chi provveda almeno ai più elementari mezzi per la loro sussistenza, come loro madre e loro maestra possono contare unicamente sulla strada. Ma se la situazione, purtroppo generalizzabile, è proprio questa, che senso può avere per loro, diventati adulti, il richiamo a determinati principi di cui non hanno mai conosciuto neanche l’esistenza e con i quali, invece, devono pur fare quotidianamente i conti? E, su queste basi, quali prospettive può avere la società civile a cominciare dall’immediato futuro?
    E già! I tempi cambiano, le circostanze mutano, le opinioni, in instancabile dialettica, si sostituiscono alle opinioni, ma il dilemma che sulle vie della storia puntualmente si presenta ad ogni incrocio in buona sostanza è sempre lo stesso: lasciarsi ottundere la mente, a tutti i livelli, dalle esigenze della quotidianità, senza porre alcun freno alla violenza ed alle passioni, ma lasciando tutto lo spazio possibile al loro libero sfogo, oppure tenere testa a tutti i costi alle loro pulsioni rifacendosi a quei principi primi che, decantati e ormai consolidati attraverso l’esperienza di quanti ci hanno preceduto e che, adeguatamente filtrati dalla ragione di cui pur si dispone, costituiscono l’unico indefettibile punto di riferimento di ogni attività umana, sia individuale che collettiva, sia privata che pubblica?
    Da più parti si lamenta che la logica dominante cui le varie attività umane sembrano ispirarsi nell’età a noi contemporanea sia unicamente quella del profitto, del profitto ad ogni costo, perfino al limite della sopraffazione ed oltre, e che la vita che vi si conduce non sembri differire poi molto da quella della giungla dove, com’è noto, vige la legge del più forte. Ma, mentre per la giungla la natura ha provveduto diversamente, per la società civile ha previsto un preciso ordinamento che tiene ben conto della ragione di cui tutti gli uomini sono dotati. A tale proposito mi viene in mente un episodio della mia infanzia che ritengo valga la pena di riferire giacché, a suo tempo, senza alcun dubbio esso incise profondamente sulla mia formazione umana e, in certo modo, rappresentò il motivo determinante di una svolta radicale nella mia ancor giovane vita.
    Quand’ero appena un ragazzo, una sera, verso l’imbrunire, alcuni miei compagni di gioco presero a calci una chioccia la quale, smarrito il nido, si mise a covare dei sassi. Avere assistito a quella scena mi fece provare tanto sgomento che smisi di giocare e corsi subito a casa: non vedevo l’ora che la mia mamma, terminate le faccende della faticosa giornata e rimboccate le coperte alle mie sorelline, si intrattenesse un po’ con me, com’era solita fare, e mi restituisse quella fiducia di cui, specialmente quella sera, sentivo vivissimo il bisogno e che soltanto una madre a quell’età può dare.
    Perché l’avevano fatto? Non sapevo darmene una ragione, ma non potevo né volevo pensare che il mondo degli adulti fosse fatto di altrettanta prepotenza, per cui sin d’allora mi misi ad osservare attentamente il loro comportamento, ansioso di raggiungere la certezza che almeno presso di loro i conti tornassero esattamente, mentre quella sera nella mia mente, stando a quella scena senza senso, essi non tornavano affatto. Pia illusione quella mia di allora! Purtroppo, con il passare degli anni, l’esperienza mi ha confermato che, a tutte le latitudini, anche il mondo degli adulti sembra fatto allo stesso modo, con la tragica differenza che il gesto dei miei compagni di allora, se si vuole, poteva essere ascritto ad un’intemperanza giovanile giustificata dalle esigenze, seppur crudeli, di un gioco, mentre gli adulti, a tutti i livelli, sogliono fare le stesse cose pretendendo di fare legittimamente delle cose serie e per nulla riprovevoli.
    Dalle nostre parti a quel tempo i contadini avevano le mani di piombo per le fatiche ed in corpo avevano tanta timidezza o tanta paura o forse tanta rabbia, ma dovevano pur darsi un contegno se volevano salvaguardare la loro dignità e trovare la forza per andare avanti, anche se una malcelata rassegnazione ad un’atavica concezione fatalistica della vita, alla quale io già sentivo di non sapermi abituare, non sempre lo rendeva loro possibile. Infatti, essi ascoltavano con trepidazione e trasporto ciò che i predicatori del vangelo di Cristo puntualmente dicevano in occasione di ogni ricorrenza liturgica, e, siccome non vi veniva fatta mai alcuna allusione alla rassegnazione, da quei discorsi fatti di speranza essi sapevano trarre quanto necessario per ritemprare le energie ed andare avanti, pur essendo certi che la felicità, quella vera, non è di questo mondo. Loro sapevano bene che Cristo aveva realizzato la più grande rivoluzione che la storia abbia mai potuto registrare, ma, mentre mi rendevo conto che non sapevano da dove cominciare, talvolta li vedevo scoraggiati come se Cristo non fosse morto anche per loro.
    Quando, dopo una giornata di duro lavoro, potevano intrattenersi sull’aia a chiacchierare con qualcuno che, per un motivo o per l’altro, per qualche tempo era stato lontano dal paese, sembrava che questi fosse tornato da loro con la verità in pugno, ed io notavo che ai suoi discorsi fatti di rivoluzione proletaria, di lotta di classe e di sindacati, essi prestavano la stessa attenzione che la domenica precedente avevano prestato al predicatore della parola di Cristo. Mi rendevo conto che in loro c’era qualcosa che non quadrava, ma allora non capivo come riuscissero a fare propri i discorsi di entrambi, anche se, a dire il vero, i rispettivi contenuti anche a me già allora apparivano pressoché identici. Infatti, dopo ogni campagna elettorale, essi votavano a sinistra, poi si pentivano e correvano in chiesa a confessare per l’ennesima volta tutte le loro paure e le loro speranze di sempre.
    Gli anni passarono ed avere preso la Luna per barattarla con il Vietnam, o pensare di investire miliardi di dollari nelle guerre stellari al fine di rendere il più incisiva possibile la propria voce sui fatti afgani, o polacchi, o mediorientali, o balcanici, o congolesi, o iracheni, ecc., è storia recente. La stessa storia in quest’ultimo decennio ha schiacciato l’acceleratore fino in fondo e con sorprendente rapidità ha saputo registrare al suo attivo la cessazione della guerra fredda tra l’Est e l’Ovest, la democratizzazione di alcuni Paesi già allineati, l’abbattimento del muro di Berlino che per quasi un trentennio ha costituito un eloquente monumento all’imbecillità umana, la riunificazione delle due Germanie, lo scioglimento del Patto di Varsavia, i passi concreti verso la costituzione ed il riconoscimento dello Stato palestinese, la realizzazione dell’Unione monetaria europea, ecc., ma già all’orizzonte si addensano nuove nubi foriere di guerra, mentre l’Occidente industrializzato si lascia sorprendere dall’afflusso, dalle conseguenze imprevedibili, di milioni di uomini di colore che disordinatamente tentano di coprirne tutti gli spazi possibili.
    E’ vero, l’uomo con la sua intelligenza ‘laica’, or sono trent’anni, ha già raggiunto la Luna! Eppure, Laggiù, nella mia isba …, cantava Gagarin durante il suo primo volo nello spazio cosmico! Cosa vuol dire, allora, riuscire a navigare tra gli spazi interplanetari se basta una capanna di legno per legarci a questo granello di sabbia? Ci stacchiamo dalla Terra in nome di una civiltà esaltante e lasciamo dietro di noi un mondo nel quale si fanno ancora le guerre e nel quale si muove ancora di fame! A giustificare simili contraddizioni dell’uomo adulto può bastare l’alibi di una natura incapace di rifiuto e di scelte affidate a Caino? Ma a questo punto mi ritornano in mente quei calci dati alla chioccia e i dubbi di quei contadini i cui pensieri oscillavano, in cerca della verità, tra le parole di Cristo e quelle dei ‘nuovi profeti’ che ogni tanto si vedevano tornare in paese dopo aver trascorso un po’ di tempo nel mondo ‘civile’. Fabrizio de Andrè, poeta della canzone e compositore musicale, attraverso la sua produzione seppe esprimere con rara sensibilità artistica e tanta efficacia molta parte del malessere del nostro tempo, e, in un’intervista concessa qualche giorno prima della sua recentissima scomparsa, ha fatto osservare come «l’uomo potrebbe conquistare le stelle, ma i suoi problemi fondamentali resteranno gli stessi», avvertendo, però, nel tempo stesso, che «un uomo senza scopi, senza utopie, senza ideali, sarebbe un mostruoso animale, un cinghiale laureato in matematica pura». Allora è proprio vero che per cercare di risolvere i vari problemi che attanagliano l’umanità, piuttosto che nelle sole applicazioni tecnologiche delle varie scoperte scientifiche, bisogna concentrare gli sforzi anche in altre direzioni?
    Quel ragazzo, che ha passato tante notti settembrine sotto un cielo trapunto di stelle lucenti nella dolce compagnia di un usignolo che con i suoi ineffabili gorgheggi soleva chiudere in bellezza il sommesso concerto dei cuculi, dei grilli e dei ranocchi, diventato adulto, da quasi cinquant’anni vive in un mondo diverso, tra gente mai ferma, stordita da un ritmo che ossessiona, ubriaca di ansia, di tensione, di ricerca incessante, ma tanto assetata di spiritualità e d’amore. In bilico tra due mondi tanto diversi, spesso in compagnia soltanto dei suoi pensieri, sarà vero che forse gli è servito a poco l’odore sudaticcio di tanti libri mandati a memoria e che forse gli sono stati più utili i discorsi ascoltati allora dalla sua gente o la lezione della gallina impazzita la quale non poteva che ingannare se stessa quando si mise a covare le pietre? Eppure, allora si era appena usciti da una guerra che in ogni parte del mondo aveva mietuto milioni di vite umane e che aveva logorato e stremato vincitori e vinti! Eppure l’Italia si stava dando, come si è data, una Costituzione tra le più belle che i popoli civili possono vantare! Ora questa nostra società scientifica e tecnologica crede nel lavoro, nell’organizzazione, nel progresso, nelle conquiste dell’universo materiale, ma non si rende conto che quell’ombra lasciata sulla Luna è come un dito puntato!     L’homo faber che ha rivelato a se stesso possibilità fino ad ora insperabili non ha, forse, ristretto il suo orizzonte alle pareti di un nido di talpa? Non rischia egli, forse, di guardare a se stesso come ad un coagulo di caso e di istinto sfociando nell’ultimo deserto del dubbio senza risposta? Ritorneremo alle paure di quelle serate settembrine ed alle speranze di allora, oppure, quando non esisterà più pietra su pietra, sospinti dalla carica della nostra baldanza, andremo a costruire i nostri cimiteri su altri pianeti e spacceremo tutto ciò per ‘nuove conquiste’?
    L’infanzia, nell’esistenza di un uomo, come in quella dell’umanità, non è che una breve stagione: quell’uomo che un tempo era capace di stupirsi dinanzi ad una farfalla ora sa affondare nel cielo una lama del suo laser. In realtà, dalla farfalla al laser c’è tutta la storia visibile della nostra natura insoddisfatta votata a cicliche scelte ed a laceranti rifiuti. Ora, per ritrovare noi stessi dobbiamo avere il coraggio di ripercorrere il cammino a ritroso, verso la farfalla, verso l’infanzia, ritornando a quelle serate settembrine con le paure di allora, oppure la storia dell’uomo ha un punto limite di fronte al quale dovremo essere capaci di rinnegare gran parte del cammino fatto e scegliere un campo dove riconoscerci e fermarci? Ma questa ‘città’, perfettamente umana, ricollocata al punto di maggiore equilibrio tra la farfalla e il laser, tra le serate settembrine della mia infanzia e questo formicaio di pazzia, esiste ancora? Se il pendolo si fermasse a metà sarebbe la fine di tutto o è proprio quella la meta che ci resta da perseguire?
    Tra tanti interrogativi una cosa è certa: una gran parte di noi è ancora da farsi! Dove ci faremo? All’ombra dei minareti o tra i bagliori di Cape Kennedy? Contro il muro del pianto o nell’isola di Wight? Nei monasteri tibetani o tra gli impenetrabili rumori e le luci psichedeliche di una moderna discoteca? Ai piedi della Croce o sui piedistalli del Potere? Il pendolo oscilla ancora, le parole non sembrano trovare risposta ed il discorso ripiega verso il punto di partenza.
    La verità è che in questi anni si sono succedute alcune generazioni alle quali non sono bastate le parole che mettevano pace, forse perché la vita veniva fatta consistere nella continua domanda o nella continua insinuazione del dubbio e della dissacrazione, tutta da chiarire e da motivare prima con la contestazione, in quanto non tutti gli esempi cui ispirarsi erano stati edificanti, poi con la provocazione, in quanto bisognava pure dare corpo alle cosiddette esigenze esistenziali, anche se spesso inconsciamente surrettizie, e poi ancora con la violenza, in quanto non era più di moda fare leva sulla forza delle idee. Ma l’uomo, collocato nel giusto mezzo tra l’angelo e il bruto, ha subito dimostrato di preferire il bruto. D’altronde è risaputo che, secondo le leggi della fisica, è sempre stato più agevole scendere anziché salire!
    Alla generazione del Sessantotto e degli anni di piombo che seguirono è parso di avere nelle mani l’ottavo giorno, quando la liberazione veniva affidata all’aristocrazia del rifiuto; ma se la rabbia di tante giovani vite si è usurata in un gran giro a vuoto, se la sicurezza di chi lottava o di chi scagliava anatemi o di chi intendeva costringere le istituzioni civili a prostrarsi ai suoi piedi e scendere a patti ha reso tutti quanti più insicuri di prima, ora la speranza che perimetro ha? Dentro ogni desolazione essa può avere una dimensione indubbiamente più grande.
    L’uomo che voleva per sé l’ottavo giorno intendeva potersi sentire il solo responsabile della storia in cui, però, nulla è promesso prima e più nessuno aspetta dopo: altero e disperato, violento e ribelle, costruttore e distruttore, egli fa scoperte strabilianti mentre allo scoccare di ogni secondo un suo simile muore di fame, ignorando perfino cosa lo fa o chi lo lascia morire così; bocca a bocca soffia ossigeno nei polmoni di un suo fratello, ma sa anche torturarlo persino applicandogli elettrodi ai testicoli; attrezza con sofisticatissime apparecchiature le sale ospedaliere di rianimazione perché vuole far di tutto per strappare alla morte quanti sono appesi alla vita da un tenue filo, ma spara all’impazzata ripetute raffiche di mitra su folle inermi, su bambini innocenti o su donne incinte; quantizza tutto con il computer ma alza le spalle dinanzi al seme della violenza che silenziosamente si annida negli invisibili anfratti del suo sistema cerebrale. Così, dopo avere riempito i piccoli e i grandi cimiteri della storia, arriva ancora alla fine con il dubbio di non avere creato intorno a sé altro che solitudine. Ma Goëthe osservava: «Trattato per quello che è l’uomo rimane quello che è, mentre se lo si trattasse per quello che dovrebbe essere egli diventerebbe quello che dovrebbe essere!».
    Quando, il 17 marzo 1861, dalla reggia di Torino Vittorio Emanuele II promulgò la legge con cui veniva riconosciuto il Regno d’Italia, del quale l’attuale Repubblica Italiana è la continuazione giuridica, qualcuno ebbe a pronunciare una frase con cui, seppure lapidariamente, intendeva tracciare la linea programmatica lungo la quale il nuovo Stato avrebbe dovuto prioritariamente muoversi: «L’Italia è fatta; adesso bisogna fare gli Italiani», che è come dire: «L’Europa è fatta; adesso bisogna fare gli Europei», che, ancora, è come dire: «Il mondo è fatto; adesso bisogna fare gli uomini». Ma dove ci faremo? Davanti allo schermo di un apparecchio televisivo stordendoci con stupidi giochi a premi, o con immagini pubblicitarie, pornografiche e di cronaca nera che subdolamente educano al «tutto e subito», oppure davanti ad uno specchio che ogni mattina ci costringa a guardare in noi stessi per insegnarci a leccare le fetide pustole di cui molto spesso è cosparso il nostro corpo e a deplorare, così, le turpitudini che gravano anzitutto sulla nostra coscienza? Lungo i marciapiedi di quei formicai di pazzia in cui abbiamo trasformato le nostre città, o nel silenzio incontaminato di un tempio dove, sotto gli occhi amorevolmente vigili del Padre, si possa ascoltare e valutare la voce della nostra anima?
    Da quel lontano 17 marzo sono trascorsi giusto centotrentott’anni durante i quali, a quanto pare, si è fatto ben poco perché gli Italiani si «facessero». Non è forse vero che la politica è la scienza del governo dei popoli? E allora perché sterilizzarla facendo sì che la laicità diventi sempre più la caratteristica dalla quale lo Stato si sente nobilitato e della quale non sembra possa fare a meno? Eppure, addirittura, ci si suole vantare di averla quasi raggiunta, quando si sa bene che ciò ha avuto luogo senza alcun riguardo per i costi, come quello della libertà che libera, e senza rendersi conto che, conseguentemente, si è finiti per inseguire quella specie di libertà che, invece, è nient’altro che prolifica generatrice di libertinaggio!
    Se libertà significa facoltà di operare liberamente delle scelte, facoltà di cui ciascun uomo è nativamente titolare, lo Stato, che costituzionalmente si pone come garante di tale diritto, dovrebbe sapere che è suo preciso dovere mettere tutti i cittadini nelle migliori condizioni perché tale diritto possa essere esercitato liberamente; e i cittadini, a loro volta, dovrebbero sapere che non è certo l’ignoranza o un atteggiamento di supina accettazione delle deliberazioni legittimate da maggioranze formalmente ineccepibili che al cospetto delle future generazioni potranno essere dedotti quali valide giustificazioni del coraggio mancato al momento opportuno. Se, a questo punto, i conti non tornano si è ragionevolmente indotti a ritenere che l’ordinamento giuridico positivo non è in linea con quello naturale: Il compito dello Stato, è quello di far sì che, attraverso un’oculata attività legislativa, da una parte l’osservanza della legalità determini le condizioni necessarie per l’esercizio del diritto alla libertà, e dall’altra vengano repressi con immediatezza gli abusi del libero arbitrio guardandosi dal prestare il fianco alle ‘affezioni di sofistite acuta’ che cronicizzandosi potrebbero indurre gli stessi dottrinari ad assumerle, come si sta già verificando, quali parametri di riferimento.
    Certamente nessuno intende far rivivere lo Stato etico né, tanto meno, lo Stato confessionale, ma tutti si sarebbe contenti di appartenere ad un Stato nel quale le istituzioni sapessero fare quanto è necessario per non tradire le legittime aspettative delle generazioni che verranno e costituissero esse stesse un indefettibile punto di riferimento, come lo costituirono le braccia della mia mamma e le pareti della mia casa quando, nei pressi della piazzetta del paese, i miei compagni di gioco avevano preso a calci la chioccia che poi si mise a covare le pietre, o le splendide serate settembrine della mia terra quando il canto dell’usignolo bastava a farmi comprendere, se non a capire, come facessero quei contadini, che pure si erano formati all’insegnamento delle parole di Cristo, ad accogliere ugualmente i discorsi del ‘nuovi profeti’. Evidentemente essi sapevano benissimo che tutti i movimenti rivoluzionari hanno sempre dei punti in comune con la rivoluzione operata da Cristo due millenni or sono, ma, nella situazione di miseria al limite della sopportazione in cui si trovavano, non era facile per loro tenere presente che nessun principio rivoluzionario può essere accettato da alcuno quando vi si inframmettono elementi di ribellione e di morte ed esso stesso viene lavato nel sangue degli uomini.
    Da tutte queste considerazioni e da tante altre che qui ritengo opportuno saltare a piè pari giacché non mi è lecito debordare dal tema che mi sono prefisso, né è affatto il caso approfittare della pazienza dei lettori, emerge chiaramente come indurre ed educare i giovani all’indagine del passato sia, dunque, un dovere da parte di quanti, ciascuno per la propria parte, sono preposti alla loro crescita ed alla loro formazione umana, prima ancora che a quella strettamente professionale, dalla famiglia alla scuola, alla società in senso lato: è soltanto attraverso la ricerca, infatti, che essi possono rendersi conto personalmente e direttamente dell’esistenza di quei valori dai quali, appunto perché veri, non è lecito giammai prescindere nella pretesa di poterli impunemente sostituire con altri fittizi che essi stessi finiscono per costruirsi nella convinzione che in questo consista l’esercizio della libertà.
    Ovviamente qui si intende parlare di ricerca da condurre con metodi rigorosamente scientifici e con pari dignità ed interesse per tutte le discipline nell’ambito dell’intero scibile, privilegiando, semmai, quelle che attengono alle materie umanistiche. Pertanto, se da un parte è da ritenere lodevole lo sforzo che ciascuno, seppure al di fuori delle sedi istituzionali, quali sono la Scuola e l’Università, può indubbiamente fare sul piano individuale, non è altrettanto lodevole il fatto che l’intera comunità, e quindi lo Stato, non stimoli e non promuova tale genere di attività e che, a sua volta, non lo coordini e lo incoraggi mettendo effettivamente a disposizione di tutti coloro che rivelano adeguate attitudini e sicure capacità le strutture necessarie ed i mezzi sufficienti per poterla esercitare: è alla fonte della ricerca, infatti, che il vero progresso attinge la linfa della propria vitalità ed è soltanto sulla ricerca che esso pone il fondamento della propria validità. Nihil novi sub sole: ormai non sembra affatto infondato il sospetto che poco o nulla ci sia da scoprire, ma molto da riscoprire.
    Nei giorni 14, 15 e 16 dicembre 1990, con la realizzazione di un’iniziativa tanto coraggiosa quanto responsabile e lungimirante, la locale Associazione culturale «Sant’Ambrogio», in occasione del bicentenario dell’autonomia del Comune, ha dato luogo al un Convegno di studi di ampio respiro sul tema «Sant’Eufemia d’Aspromonte, dall’evo antico all’età moderna», il primo che sia stato mai progettato e realizzato con finalità esclusivamente culturali. La straordinaria occasione ha suscitato notevole interesse ad ammirazione anche presso di me, tant’è che, non appena ho ricevuto l’invito a parteciparvi, nonostante mi dividesse una distanza di oltre 1000 Km. e numerosi fossero gli impegni professionali che mi avrebbero costretto a non assentarmi dalla sede, non ho esitato ad assicurare la mia presenza.
    Con i loro interventi di altissimo livello scientifico i vari relatori che, a ritmo serrato, si sono succeduti al microfono hanno lumeggiato, seppure panoramicamente, gli aspetti di maggiore rilievo della Comunità eufemiese, dalle origini ai giorni nostri, attraverso un meticoloso esame condotto con competenza davvero magistrale, sia sul piano storico-geografico, che su quello archeologico, linguistico, religioso, politico, economico, sociale, artistico ed antropologico, talmente approfondito da non lasciare, almeno apparentemente, altro spazio ad ulteriori argomentazioni. In verità, come risulta dai relativi Atti, pubblicati nel dicembre del 1997 presso l’Editrice Rubbettino di Soveria Mannelli (CZ), per conto dell’Istituto di studi su Cassiodoro e sul Medioevo in Calabria, a cura del compianto prof. Sandro Leanza dell’Università degli Studi di Messina che del Convegno era stato il sagace moderatore, lo status quaestionis che ne è risultato è quanto mai aperto a nuovi orizzonti, ancora tutti da scoprire e da esplorare, giacché il tempo previsto per lo svolgimento di simili tematiche in quell’occasione, ovviamente, non poteva consentire l’esaurimento di una materia tanto vasta quanto complessa e ricca di spunti e di particolari significativi e, per ciò stesso, quanto mai interessanti.
    In tal senso quanto a suo tempo voluto e realizzato, seppure con scarsissimi mezzi a disposizione, dall’Associazione «Sant’Ambrogio» è opera da ritenersi veramente meritoria e, pertanto, non è giusto che la partita debba ritenersi chiusa, come, in genere per ragioni di gretto spirito campanilistico, si suole verificare un po’ dappertutto a proposito di simili iniziative, ma essa stessa venga considerata punto di partenza per ulteriori iniziative del genere e, peraltro, costituisca motivo di incitamento perché lo Stato e le Amministrazioni locali, ciascuno per la parte di propria competenza, si facciano carico di assicurare la disponibilità dei mezzi necessari affinché le giovani generazioni si sentano incoraggiate a dare il loro fattivo contributo per mantenere viva e vitale la memoria del nostro passato, che, poi, stando all’assunto qui sostenuto, è la memoria stessa del nostro futuro. Queste, a loro volta, poi, sappiano che ciò che conta non è la forza fisica né quella economica, ma quella delle idee. Purtroppo, oggi viviamo in un’epoca caratterizzata da un’enorme confusione alimentata da quel genere di cultura che proviene dal mondo dei mezzi di comunicazione di massa ed in particolare dalla televisione. Questa non è ‘la cultura’. I giovani hanno immense capacità e sanno essere critici, ma non tutti dispongono di criteri di giudizio sufficienti, atti a prevenire i rischi che l’’apparire’ suole esercitare su di loro e che molto spesso li distrae o ne fa sprecare inutilmente le migliori energie. Le conquiste che conviene perseguire sono quelle personali e la loro validità è direttamente proporzionale al sacrificio fatto per raggiungerle: siccome le piogge di manna che provengono dal cielo possono scaturire soltanto da prospettive valoriali, bisogna che essi si diano, quindi, tutto il da fare necessario, seppure costi fatica come tanta ne è costata a molti dei nostri padri, per procurarsi tutti i dati possibili, con molta intelligenza e tanta umiltà secondo procedimenti asettici, ancorandosi con la massima fermezza a quei principi fondamentali che sono imprescindibili e indispensabili per chiarirsi bene le idee e per essere utilizzati al meglio tenendoli sempre presenti sia nella fase di progettazione che in quella di realizzazione della propria vita tutta da finalizzare ad un futuro fatto di progresso autentico non solo a favore di se stessi e della propria gente, ma dell’umanità intera. Per aspera ad astra!
    E’ con tale auspicio e tale intendimento che ho accolto molto volentieri l’invito a curare questa edizione della «Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte» di Vincenzo Tripodi che, a distanza di cinquant’anni dalla sua morte, ora propongo ai miei concittadini, ovunque essi si trovino.
    Nell’adempiere al mio compito non mi sono permesso di apportare alcuna modifica al testo originario che qui, pertanto, mi sono limitato e riprodurre trascrivendolo integralmente dalla prima edizione. Per fornire, invece, qualche spunto di riflessione e qualche indicazione, anche di carattere bibliografico, che possa essere utile sia ai fini di ulteriori ricerche ed approfondimenti da parte degli studiosi che di una maggiore comprensione da parte dei comuni lettori, in corrispondenza di alcune voci e di alcuni concetti presenti nel testo ho ritenuto opportuno inserire delle note, soprattutto di carattere storico, che, ovviamente, tenessero conto dei risultati cui nel frattempo sono pervenuti gli studi già condotti sul tema.
    D’altronde, nel presentare questo lavoro da parte mia non c’è alcuna pretesa se non quella di rendere un doveroso omaggio alla memoria del suo Autore e di fare in modo che, seppur minuscola nelle sue dimensioni, questa prima opera organica di storia sulla nostra terra natale, com’è stato auspicato da più parti, sia ancora disponibile e possa essere ancora letta con l’attenzione ed il rispetto che essa merita, nella fiducia di aver fatto in tal senso cosa non del tutto inutile per la patria comune, per la quale, così come per tutti coloro che le resero lustro in loco e soprattutto nel mondo, ciascuno di noi nutre quell’affetto santo che nessuna forza umana sarebbe mai capace di strapparci dal cuore, in quanto connaturato con la nostra stessa coscienza di appartenere al popolo eufemiese, e quindi parte integrante della nostra «eufemiesità».

    Brescia, 14 gennaio 1999 (50° anniversario della morte)




N.B. – Su tale lavoro hanno scritto:

dott. Domenico Forgione, in «Reggio e Provincia» del 20 gennaio 2000: «In una sala consiliare affollata si è svolta la presentazione della riedizione del volume Breve monografia su Sant’Eufemia d’Apromonte del maestro Vincenzo Tripodi. Promotrice della meritoria iniziativa l’associazione culturale “S. Ambrogio”, la quale si è avvalsa del patrocinio dell’Amministrazione comunale. L’opera, edita per la prima volta nel 1945, si è ulteriormente impreziosita grazie al contributo di Antonino Fedele che ne ha curato la riedizione arricchendola con un’introduzione di ampio respiro e con l’integrazione di puntuali note esplicative necessarie per colmare alcune lacune che il testo originario presentava. […] La presentazione si è avvalsa, inoltre, degli interventi del prof. Giuseppe Pentimalli, direttore della rivista trimestrale “Incontri”, oltre che della competenza del prof. Giuseppe Caridi dell’Università di Messina. […] L’opera dovrebbe suscitare interesse stimolando anche un approfondimento su alcuni periodi dei quali, come sottolineato dal prof. Caridi, si sa poco, specie per l’arco di tempo compreso tra il IX-X sec. e l’autonomia».


prof. Maria Eufemia Tripodi Cardamone, docente di lettere nelle scuole secondarie statali, nipote dell’Autore, nella lettera del 16 febbraio 2000 che ha inviato al curatore: «[…] Volevo ringraziarLa per l’ottimo e perfetto lavoro che ha fatto, non solo nella presentazione introduttiva, ma anche nelle note alla Monografia. Da tutto traspare il vivo impegno, la puntigliosa cura dello studioso e l’amore per la cultura e la ricerca, nonché una facilità di comunicazione non comuni. D’altra parte, dalla Sua biografia ho notato che nel prof. Fedele umanista convive uno spirito eclettico, aperto a varie tematiche. A questo punto mi permetta dirLe, con una punta di orgoglio, che da un tale educatore, quale era Vincenzo Tripodi, non poteva venir fuori allievo migliore che, mi pare proprio, abbia superato il Maestro! Il Suo lavoro sulla Monografia è stato un vero atto di amore verso il Suo insegnante, ed io ho letto e riletto con viva commozione il ricordo che Lei ha di mio Nonno. […]».


Vincenzo Fedele, Presidente dell’Associazione culturale «Sant’Ambrogio», sul primo risvolto della copertina del volume: «Questa edizione della Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte di Vincenzo Tripodi, vede la luce per il desiderio concordemente espresso dal compiano rag. Pasquale, figlio dell’Autore, dal prof. Antonino Fedele che si è dichiarato disponibile a curarne il volume e dall’Associazione culturale «Sant’Ambrogio» che ha ritenuto doveroso assecondarne e patrocinarne il progetto fatto proprio al fine di onorare, nel 50° anniversario della morte, la luminosa figura del Maestro, cittadino esemplare ed autentico educatore dei figli del popolo. […]».

































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