Antonino Fedele


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Parafrasi della canzone ‘La ginestra’

Opere proprie

    PARAFRASI                                                                                                           
    di Antonino Fedele

    
GIACOMO LEOPARDI, La ginestra (o Il fiore del deserto):


    Questa canzone, costituita da 317 versi, fu scritta da Giacomo Leopardi nel 1836 a Torre del Greco (Napoli), mentre era ospite dell'amico Antonio Ranieri che la pubblicò postuma. Dall’Autore, morto il 14 giugno 1837 a Napoli, molto probabilmente di colera, mentre era sempre ospite del Ranieri, essa era stata posta a conclusione dei suoi Canti con il medesimo titolo, quasi a rappresentare la tappa finale del drammatico itinerario spirituale.
    Il tessuto contenutistico del canto si snoda attraverso una serie di considerazioni sull'universo mondo e di profonde riflessioni sulla tragica lotta che l'uomo è costretto a condurre titanicamente contro la natura. L'occasione gli fu offerta dal paesaggio desolato, quale si presentò ai suoi occhi, su cui domina imperterrito il Vesuvio. Infatti, nel 79 dell'era volgare, nel giro di poche ore, in un impeto di attività particolarmente intensa, il vulcano aveva distrutto i suoi ridenti dintorni, seppellendo uomini e cose sotto una fittissima coltre di lava ormai pietrificata. Lo scenario, interrotto qua e là da qualche cespuglio di ginestra, indusse il Poeta a meditare sui fatti umani e a riflettere sugli ineluttabili condizionamenti del male ovunque presente nel mondo. A conclusione della lunghissima parabola dello stringente ragionamento, quindi, egli rivolge un accorato appello agli uomini perché, nel destino che tutti li accomuna, si sentano fratelli e lottino insieme per cercare di lenire in qualche modo il dolore che inseparabilmente li accompagna lungo l'intero arco della loro esistenza.
    Il versetto 19 del cap. III del Vangelo di Giovanni ( ... e gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce) nelle intenzioni del Poeta, che lo pose quale esergo di questa composizione, evidentemente vuole rappresentare sia la profonda serietà e sia la singolare religiosità che caratterizzano il canto. Inoltre, nel tempo stesso, intende anticipare l’attribuzione della funzione di messaggio che egli, confermata la propria fede nella dignità dell'uomo, appunto perché consapevole dell'estrema miseria con cui l'umanità è costretta a fare continuamente i conti, vuole energicamente lanciare a tutte le generazioni perché prendano coscienza della loro condizione senza lasciarsi lusingare dal progresso scientifico e tecnologico e, nel contempo, senza illudersi di poter risollevare le proprie sorti confidando irrazionalmente nell'intervento dall’alto.


    Il desolato scenario vesuviano (vv. 1-37):


    Ginestra odorosa, che ti appaghi dei luoghi deserti, tu spargi i tuoi cespugli solitari qui, sulle aride falde del Vesuvio sterminatore che non sono rallegrate da altra pianta, né da altro fiore, dove la vita, privata di ogni speranza, di ogni ragione e di ogni significato, è inesorabilmente vinta per sempre dalla morte. Già altre volte ti avevo visto adornare con i tuoi steli la campagna deserta che circonda Roma, un tempo regina del mondo, della cui potenza al passeggero sembra far da richiamo e da testimone lo spettacolo delle rovine che rendono muto l'intero scenario. Ora ti rivedo qui, amante dei luoghi tristi e abbandonati dal mondo, inseparabile compagna di grandezze che furono un tempo e che ora non sono più. Questi campi, oggi cosparsi di sterili ceneri e ricoperti dalla lava pietrificata che sotto i piedi del viandante ora fa sentire l'eco di un mondo sepolto, diventati nido di serpi che si crogiolano ai caldi raggi solari, dove i conigli selvatici sanno ritrovare le tane a loro ben note, un tempo furono fertili villaggi ben coltivati, dove biondeggiavano le spighe ed echeggiavano i muggiti delle mandrie; essi furono giardini e palazzi che offrivano la loro gradita ospitalità ai signori in vacanza, furono città famose, come Pompei, Ercolano e Stabia, che la superba montagna, eruttando torrenti di lava incandescente dalla sua bocca di fuoco, seppellì con fulminea violenza unitamente ai loro abitanti. Ora che ogni cosa ha il misero aspetto di una rovina, è qui che tu sorgi, o ginestra, e, quasi commiserando le altrui sventure, mandi al cielo i tuoi effluvi che consolano questi luoghi deserti.

    L'illusione del progresso (vv. 37-51):


    Venga pure su questi declivi chi suole esaltare la nostra condizione tessendone le lodi, e veda quanta cura del genere umano, si prende la Natura, matrigna e non madre, amante e non sposa! Soltanto qui egli potrà rendersi conto esattamente dell'impotenza dell'uomo che, quando meno se lo aspetta, essa può sopprimere in un momento, con una lieve scossa, e, con sconvolgimenti un po' più forti, può distruggere tutto! Proprio in questi luoghi è rappresentata tutta la magnificenza del progresso dell'umanità!


    Ottusità dei contemporanei, isolamento del Poeta e viltà delle illusioni (vv. 52-86):


    Secolo superbo e stolto, che hai abbandonato la strada maestra già tracciata dalla rinascita del pensiero, tu che ti vanti di essere fattore di progresso mentre, invece, hai soltanto fatto regredire il mondo, vieni a specchiarti. I migliori ingegni, sebbene nel loro intimo ti beffeggino, adulano il tuo modo puerile di ragionare. Io non morirò portandomi dietro la vergogna di essermi unito a costoro, ma piuttosto avrò il coraggio di esprimere apertamente tutto il disprezzo che il mio cuore nutre nei tuoi confronti, nonostante sappia che chi non piacque al proprio secolo sia destinato a essere dimenticato. Ma proprio di quest’oblio che mi accomunerà a te io m'infischio. Tu vai disegnando progetti di libertà, ma vuoi asservire di nuovo il libero pensiero grazie al quale soltanto ci siamo affrancati dalla barbarie medievale e che è il solo a far progredire le civiltà e migliorare le sorti dei popoli. Così ti spiacque conoscere la verità sul triste destino che la Natura ha riservato agli uomini. Proprio per questo hai voltato vigliaccamente le spalle alla ragione illuministica che te l’ha svelato. Ora dài del meschino a chi segue quella ragione e del magnanimo a chi, schernendo se stesso e gli altri, per astuzia o per follia, innalza fin sopra le stelle del cielo la condizione dell'uomo sulla terra.


    E' da stolti non riconoscere il proprio stato (vv. 87-110):


    Un uomo di umili condizioni e di malferma salute ma dotato di un animo nobile e generoso non dice di essere ricco né vigoroso e tra la gente non fa ridicolo sfoggio di ricchezza né di forza fisica, ma, senza vergognarsene, si lascia apparire povero sul piano sia fisico sia economico, dice apertamente di essere tale qual è, ritenendo il proprio stato conforme al vero. Io non ritengo che sia un essere vivente magnanimo ma stolto colui che, nato per morire e vissuto tra gli affanni, dice di essere venuto al mondo per godere e riempie i libri di stupido orgoglio promettendo agli uomini destini eccelsi e felicità nuove sulla terra che non solo questo mondo ma l'intero universo ha mai conosciuto, visto che un maremoto, o una semplice folata d'aria infetta o un terremoto basta per distruggere tutti al punto che di loro a mala pena rimane solo il ricordo.

    Appello alla solidarietà per difendersi dalla Natura (vv. 111-157):


    Ha un carattere nobilissimo chi guarda in faccia con coraggio il comune destino e che, senza minimamente mentire, ammette sia la presenza del male di cui ci è stato fatto dono, sia la miseria e la fragilità della condizione umana; chi si dimostra grande e forte nella sofferenza senza aggiungere alle proprie miserie l'odio e l'ira contro il proprio fratello, ritenendolo, cosa ancor più grave, responsabile del proprio dolore, ma incolpa quella che è veramente colpevole, giacché nei confronti degli uomini si è dimostrata essere madre di parto e matrigna di comportamento. E' costei che chiama nemica e, ritenendo che l'umana società sin dalle sue origini, si unì e si organizzò proprio per difendersi dalla Natura, egli considera gli uomini come uniti da un patto comune e li comprende tutti con vero amore, offrendo e attendendo un aiuto valido e pronto nelle alterne vicende e nelle angosce della lotta contro di essa. Egli reputa stolto armarsi per offendere l'uomo e tendere insidie al prossimo, come se, essendo circondato da nemici sul campo, nel momento cruciale della battaglia, lasciando da parte i nemici, cominciasse a dar corso a risse crudeli con gli amici e mettere in fuga o vibrare mortali colpi di spada sui propri soldati. Quando simili pensieri saranno, come già lo furono un tempo, palesi a tutti e quell'orrore che nell'età primitiva indusse gli esseri umani a stringersi in società per difendersi dagli attacchi dell'empia Natura, e il civile consorzio, finalmente caratterizzato dall'onestà e dalla rettitudine, almeno in parte sarà nuovamente guidato dalla verità vera, allora la giustizia e la pietà avranno ben altra ispirazione, ben altro fondamento che non le superbe favole sulle quali suole basarsi l'onestà della gente e reggersi come si può reggere chi si basa sull'errore.


    Grandezza dell'universo e piccolezza dell'uomo (vv. 158-201):


    Spesso, in questi luoghi desolati, bruniti dai flutti lavici ora fatti pietra ondulata, io mi soffermo e osservo le stelle che fiammeggiano nell'azzurro purissimo del cielo, mentre da lontano il mare fa loro da specchio e il mondo tutt'intorno brilla per lo scintillio che proviene dagli spazi siderali. Poi, appunto, quando rivolgo la mia attenzione a quelle luci che sembrano punti, mentre sono immense, sicché la terra e il mare nei loro confronti sono davvero un punto, e non solo l'uomo ma l'intero pianeta, su cui un nulla da loro è sconosciuto, e quando miro quelle nebulose, ancora più infinitamente lontane, che a noi sembrano vapori, non solo l'uomo, non solo la terra, ma tutte le stelle infinite per numero ed enormi per dimensioni, unitamente al sole, o da loro sono sconosciute o loro appaiono come appaiono alla terra, cioè un punto di luce nebulosa, cosa puoi sembrare tu, stirpe dell'uomo? E pensando alla tua condizione quaggiù, in questo mondo, di cui la testimonianza più eloquente sono questi luoghi che io calpesto, al fatto che ti creda signore dell'universo e a quante volte ti sia compiaciuto favoleggiare che gli dei, origine di tutte le cose, scendessero dall'alto proprio per te, su quest’oscuro granello di sabbia che si chiama terra, e si soffermassero a conversare piacevolmente con gli uomini, e che perfino il nostro secolo, che per sapienza e civiltà sembra di tanto superiore ai precedenti, rinnovando quelle favole già ritenute ridicole, quale sentimento, infelice discendenza di Adamo, o quale pensiero allora mi assale? A questo punto non so se prevalga il riso o la pietà.


    Attività e indifferenza della Natura (vv. 202-235):


    Come, quando un piccolo frutto, che nel tardo autunno cade dall'albero soltanto perché giunto a maturazione, schiaccia, distrugge e in un attimo ricopre di terra i ricoveri sicuri scavati dalle formiche con grande lavoro nella terra morbida e le ricchezze che con lunga e costante fatica esse avevano provvidamente accumulato nella stagione estiva, così, piombando dall'alto, una cupa valanga di ceneri, di pomici e di sassi mista a bollenti ruscelli di lava scagliata verso il cielo dal cratere del vulcano, o un’immensa colata di massi liquefatti, di metalli e di sabbia infuocata scendendo furiosa tra l'erba lungo le pendici del monte, gettò scompiglio, distrusse e ricoprì le città litoranee bagnate dal mare; perciò su quelle città, ove pascola la capra, e sull'altra parte ne sorgono di nuove alle quali le sepolte fanno da fondamento e il pericoloso monte ai suoi piedi quasi calpesta le mura distrutte. Nei confronti del genere umano la Natura non riserva maggiore stima né ha maggior cura che nei confronti della formica, e se la strage tra gli uomini è più rara che tra le formiche è perché, d'altronde, la stirpe umana è meno rapida nel provvedere alla propria riproduzione.


    La minaccia del Vesuvio e le rovine di Pompei (vv. 237-295):


    Trascorsero ben milleottocento anni da quando, distrutte dal fuoco, scomparvero quelle popolose città e il contadinello, già intento nella coltivazione dei vigneti, che ora la terra priva di vita e simile a cenere, fa crescere a stento, ancora guarda con sospetto la montagna portatrice di morte che, per nulla diventata più mite, tuttora incombe minacciosa di strage per lui, per i suoi figli e per i suoi poveri averi. E spesso egli, misero, trascorrendo tutta la notte insonne sul letto nel suo rustico abituro, balza all'aria aperta ed esplora il corso della temuta lava che dalle viscere del vulcano inesausto si riversa sulle pietrose pendici e il mare di Capri, il golfo di Napoli e di Mergellina ne riflette i bagliori. Se vede che la lava si avvicina o se nel fondo del pozzo sente l'acqua gorgogliare egli sveglia i figlioli e la moglie e, fuggendo via con quanto riescono ad afferrare in fretta delle loro cose, guarda da lontano la sua casetta e il campicello, che per lui era stato l'unica difesa dalla fame, diventati preda del fiume rovente che sopraggiunge crepitando e che inesorabile si distende e indurisce. Dopo un lungo oblio l'antica Pompei, che la ricerca di beni materiali o l'umana pietà, come uno scheletro sepolto, sottrae alla terra, torna alla luce, e dalla piazza deserta il passeggero, in piedi tra i colonnati in rovina, contempla la doppia cima e la cresta fumante che ancora minaccia le rovine disseminate ovunque. E nel segreto di quell'orribile notte, tra i teatri deserti, tra i templi smozzicati e le case distrutte, dove i pipistrelli nascondono i loro piccoli, come una lugubre lucerna che si aggiri tra i palazzi vuoti guizzano i bagliori della lava che rosseggia funerea nel buio e tutt'intorno illumina quei luoghi. Così la Natura resta ferma, sempre vigorosa, anzi procede lungo i millenni con tale lentezza da sembrare immobile, ignara dell'uomo e delle epoche storiche, che l'uomo chiama antiche, e del succedersi delle generazioni. Cadono i regni, scompaiono i popoli e le loro lingue, ma essa non se ne accorge nemmeno; tuttavia l'uomo si arroga il vanto di essere eterno.

    Fragilità e grandezza della ginestra, umile fiore del deserto (vv. 296-317):


    Umile ginestra che con i tuoi cespugli odorosi adorni queste spoglie campagne, anche tu presto soccomberai sotto la crudele potenza del fuoco che fuoriesce dalle viscere del vulcano il quale, ritornando dove già era giunto, sui tuoi teneri cespi stenderà il suo avido lembo. E, sotto il peso mortale, tu piegherai il tuo capo innocente senza opporre alcuna resistenza: ma non piegato fino ad allora inutilmente e vigliaccamente supplicando pietà dalla Natura che ben presto lo schiaccerà, ma senza averlo innalzato verso le stelle né verso il deserto del mondo dove, non per tua volontà, ma per sorte, avesti la vita e la dimora, ma tanto più saggia e tanto meno malata dell'uomo quanto più non credesti che la tua fragile stirpe fosse stata resa immortale dal destino o addirittura dai tuoi meriti.


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