Antonino Fedele


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Di quale ‘legge’ vogliamo parlare?

Opere proprie

    DI QUALE ‘LEGGE’ VOGLIAMO PARLARE?                                 
    di Antonino Fedele
    (in «Lettere al direttore», pubblicato su «La Voce del Popolo» del 26.01.2007).



    Gent. Direttore,
    gli sconcertanti comunicati, come le modalità con cui si è pervenuti alla morte di Piergiorgio Welby, la sentenza di morte pronunciata nei confronti di Saddam Hussein e la relativa esecuzione, le pressanti richieste di riconoscimento giuridico delle coppie di fatto, le numerose difficoltà che sul piano burocratico si frappongono alle adozioni di bambini bisognosi di una famiglia, e quant’altro, che si sono succeduti a ritmo frenetico in questi giorni che avrebbero dovuto essere giorni di festa, della più importante festa dell’umanità, mi hanno indotto a fare alcune considerazioni che ora mi permetto sottoporre alla Sua attenzione ed a quella dei cortesi lettori.
    Com’è noto, dopo aver conquistato con la forza delle armi quasi tutto il mondo allora conosciuto, la Roma dei Cesari ritenne che, per poterne mantenere il dominio, fosse necessario garantire la pacifica convivenza delle popolazioni assoggettate e, a tal fine, consolidare soprattutto l'autorità dello Stato. Quindi provvide a porre in essere dall'alto tutta una serie di leggi sulla cui base si venne gradualmente formando un ordinamento tale da costituire un esempio più unico che raro di civiltà giuridica della quale gli italiani, che di quella Roma sono i diretti discendenti, sogliono menar vanto. Ma quante ingiustizie e quanti misfatti si perpetrarono in nome di quel genere di leggi?!
    Erano stati proprio quei maestri del diritto a coniare il noto aforisma Qui de jure suo utitur neminem laedit (Chiunque esercita un proprio diritto non lede alcuno) sul quale, interpretato letteralmente, nessuno poté avere alcunché da ridire, ma non si rendevano conto che esso si sarebbe attagliato meglio alla condizione umana se lo si fosse potuto interpretare come se vi fosse stato scritto laedat (stia attento a non ledere quello altrui) e non laedit.
    Per lungo tempo, da allora, essi sono andati dicendo: Dura lex sed lex (Anche se dura la legge è la legge), ma non dovette passare molto tempo perché si vedessero costretti a sperimentare sulla loro pelle come a quell'ordinamento mancasse una base ben più solida di quanto non lo fosse la «ragion di Stato» e perché, dopo tante strabilianti conquiste, assistessero impotenti alla loro stessa rovina. Infatti, non appena sul loro orizzonte apparve il Cristianesimo, di null'altro armato se non di quella croce che essi stessi avevano eretto quale ignominioso strumento di tortura e di morte ed i cui insegnamenti, in nome di una giustizia più giusta, toccarono direttamente le coscienze di ciascun uomo, la fine dell'autorità dei Cesari fu segnata per sempre.
    E' vero che alcuni farisei con alcuni erodiadi quando si presentarono a Gesù per prenderlo nel laccio di una questione e gli dissero «Maestro, noi sappiamo che tu sei sincero e non hai riguardo per nessuno; poiché tu non guardi in faccia agli uomini, ma insegni la via di Dio secondo verità, è permesso pagare il tributo a Cesare o no?» Egli, a conoscenza della loro malizia, disse: «Perché mi mettete alla prova? Portatemi un denaro, che lo veda.» Essi glielo presentarono. Ma Egli chiese: «Di chi è quest'effigie?» Gli dissero «Di Cesare». Allora Gesù rispose: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». E rimasero meravigliati di Lui (Mc., 11, 13-17). E’ a tutti evidente che il Maestro con tale inattesa risposta intendeva significare come tra la sfera materiale e quella spirituale, che pure coesistono nello stesso essere umano, sussiste una netta distinzione, e soprattutto voleva sottolineare come la prima è naturalmente subordinata alla seconda.
    Certo che la legge è legge e che come tale va osservata, ma di quale legge si parla? Di quale diritto essa si può ritenere fonte primaria? Si tratta di qualcosa di 'formalmente' diritto o di qualcosa di 'sostanzialmente' storto? Di quale promozione umana essa può essere ritenuta garante quando a scriverla sono gli stessi uomini i quali, spesso dimentichi della propria limitatezza, la scrivono in un determinato momento storico e talvolta per gretti interessi di parte (o di partito?), ignorando, o addirittura osando contravvenire alla Lex, quella scritta direttamente dal Creatore e Signore di tutti gli esseri animati e inanimati? Se a nessuno sfugge che la politica, la scienza del governo dei popoli, affinché non abbia ad essere sterile debba tenere conto della natura umana, perché, seppure attraverso l'adozione delle misure più idonee al soddisfacimento dei suoi bisogni esistenziali, le leggi dello Stato non vengono scritte mirando soprattutto alla restaurazione della dignità morale dell'uomo, di ogni singolo uomo?
    Non a caso qualcuno, a suo tempo, ha affermato che, «trattato per quello che è, l'uomo rimane quello che è, mentre, se lo si tratta per quello che dovrebbe essere, egli diventa quello che dovrebbe essere». Ma, allora, dov'è che si fa l'uomo? Davanti alla schermo di un apparecchio televisivo stordendolo con immagini pubblicitarie, pornografiche, di cronaca nera o di interminabili crudeltà belliche che subdolamente lo educano al «tutto e subito»? Oppure davanti ad uno specchio che tutte le mattine lo costringa a guardare dentro se stesso e gli insegni a leccarsi le fetide pustole di cui molto spesso è cosparso il suo corpo e a deplorare così le turpitudini che altrettanto spesso, prima ancora che su quella degli altri, gravano sulla sua coscienza? Negli stadi, nelle moderne discoteche, lungo i marciapiedi di quegli altrettanti formicai di pazzia in cui sono state trasformate le città? Oppure nel silenzio incontaminato di un tempio, dove egli possa ascoltare la voce della propria anima a colloquio con il Padre?
    Il noto scrittore russo Boris Leonidovic Pasternac un giorno ebbe ad esclamare: «Silenzio, sei la cosa più bella che io abbia mai ascoltato!» E il critico letterario Claudio Magris soggiungeva che «l'essenziale risiede nel ‘non-detto’ perché la parola dell'uomo, anche la più alta, è sempre scacco, insufficienza, approssimazione difettosa, o, addirittura, deformazione ingannevole»
    Ricordo che da ragazzo in casa sentivo dire spesso che «se la parola è d'argento, il silenzio è d'oro», ma allora non mi rendevo conto della grande verità contenuta in quella massima; tanto meno me ne resi conto più tardi quando scioccamente alla voce «silenzio» mi sono provato ad attribuire il significato di «omertà» o di qualcosa d'altro. Da quel tempo passarono molti anni, ad esperienze si aggiunsero esperienze, sia dirette che indirette, grazie alle quali oggi essa mi appare in tutta la sua chiarezza ed in tutto il suo splendore. Infatti, Heidegger affermava che «la coscienza parla unicamente e costantemente nel modo del silenzio». Quando l'autore del Libro dei Proverbi scriveva che «chi custodisce la propria bocca custodisce la propria anima» evidentemente dava per scontato che chiunque si accinga a parlare, prima di farlo, si debba preoccupare di ascoltare la voce della propria coscienza la quale, appunto, parla attraverso il silenzio; ma, a quanto pare, questo non può essere dato per scontato se ci si limita ad ascoltare la voce degli altri, la cui principale preoccupazione sembra essere proprio quella di permeare di sé tutte le fibre del prossimo.
    Certo, l'uomo per crescere ha bisogno di ascoltare ma, dato che le radici del suo essere affondano nel terreno della propria coscienza, è appena il caso che egli impari a meditare a fondo su tutto ciò che gli perviene o che gli viene proposto o imposto dall'esterno, e soprattutto a riflettere prima di parlare; in altri termini, è necessario che egli impari a filtrare ogni esperienza attraverso il vaglio della propria coscienza nella quale, appunto, secondo criteri ivi indelebilmente fissati dallo stesso Creatore, si esprime la parola di Dio, l'unica ad essere parola di verità.
    Molto spesso, invece i suoi simili, quasi fossero loro i detentori della verità, non solo sogliono ricoprire con una patina d'oro l'argento di cui sono fatte le loro parole e le spacciano per oro colato urlandole a piena gola ai quattro venti ed elevandole perfino al rango di «legge dello Stato», ma, ancor più spesso, della stessa patina sanno diligentemente ricoprire metalli ben più vili dell'argento e con sempre maggior vigore li spacciano ancora per oro colato. Quali i risultati? Che tutti, ormai, sotto i colpi di tanto stordimento, si è affetti da pericolosi attacchi di labirintite che rischiano di cronicizzare, giacché sembra che tutti si sia perso il senso dell'orientamento e nessuno sappia più riflettere su quel che dice o scrive, basta pretendere che lo Stato prometta e s’impegni solennemente a mantenere ciò che la piazza chiede a gran voce, e, spinto dall’onda emotiva, proceda a legiferare su riforme spacciate per necessità prioritarie anche se tali non sono, senza interporvi indugi, tanto a riformare nuovamente ciò che è stato riformato si fa sempre in tempo.
    Ma non sarebbe piuttosto il caso che ciascuno, governanti e governati, individualmente intesi, pensasse a riformare il proprio cuore e la propria mente prima di dettare alcuna legge, o di pretendere che vengano promulgate norme intese a salvaguardare il bene comune, mentre spesso capita che a beneficiarne sono soltanto alcuni a scapito degli altri?
    Purtroppo, se tutti ascoltano, tutti si sentono legittimati a parlare e così nessuno sa più ascoltare la voce del silenzio che annuncia sempre verità vere, anche se spesso non gradite o anche se sono in molti a non essere più disposti ad ascoltarle, specie quando ci si lascia affascinare dalle moderne sirene ammaliatrici che sembrano fare a gara nell'emettere note apparentemente le più toccanti. Forse tali non sono spesso le aule parlamentari, tali talvolta anche quelle dei tribunali, delle scuole, delle università, delle sale cinematografiche, delle piazze, delle redazioni di certi giornali e di certe riviste, insomma della gran massa di carta stampata posta quotidianamente in bella mostra nelle edicole, tali non sono i rotocalchi più diffusi e gli annunci radiotelevisivi, tutti efficacissimi mezzi di informazione che spesso deforma, di persuasione che spesso non persuade, ma che certamente inquina ed ammorba irrimediabilmente le coscienze?
    E questo perché? Perché ciascuno, credendo di possedere la panacea risolutiva, cerca sempre di far ricadere sugli altri la responsabilità di tutti i mali, e, da bravo imbonitore, si dà il suo bel da fare per collocare il proprio banco di vendita nel bel mezzo del gran mercato ove esibire e vendere la propria merce come fosse la migliore. Ad avere perduto il senso dell'orientamento, appunto, il mondo appare come un gran teatro in cui si rappresenta ora una commedia ora una tragedia, ma dove lo scopo della rappresentazione sembra sfuggire continuamente giacché, quando gli spettatori credono di averne afferrato in qualche modo il vero senso, le loro palpebre si richiudono sullo spettacolo enigmatico e l'incubo riprende più spaventoso di prima.
    Ormai non ci sono più altri Mosè che hanno da consegnarci leggi scritte su tavole di pietra, né a noi è dato di poter contare sulla libertà di crogiolarci nei nostri sogni razionali. Nel fondo della coscienza di ciascun essere umano, invece, il Creatore ha apposto il proprio sigillo: guai a chi, fosse anche lo stesso legislatore, osa profanare il tempio del Signore, ma guai soprattutto a chi in quel tempio non sa ascoltare umilmente la Sua voce.





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