Antonino Fedele


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Costituzione, legislazione e consulenza del lavoro

Opere proprie

COSTITUZIONE, LEGISLAZIONE E CONSULENZA                         
DEL LAVORO


di
Antonino Fedele
(apparso su «Il dialogo», anno XV, n. 2, aprile 1985)

    
Se per lavoro si intende quell’atto volontario e cosciente che l’uomo compie semplicemente per soddisfare il suo bisogno innato di agire (lavoro considerato sia come mezzo che come fine, e quindi fine a se stesso) o per procurarsi i beni necessari al soddisfacimento dei suoi bisogni di natura esistenziale (lavoro considerato come mezzo per fini diversi), esso viene a configurarsi come un interesse esclusivo di chi agisce. Ma se del lavoro, invece, si vanno a considerare le implicanze sociali che esso indubbiamente comporta, si evince chiaramente come e perché esso costituisca la pietra angolare su cui poggia l’intero edificio costituzionale italiano, tant’è che il costituente non a caso ha voluto che la Repubblica fosse fondata proprio sul lavoro.
    Infatti, superata la concezione individualistica tradizionale che per secoli ha caratterizzato di sé il mondo della produzione, il lavoro nella Costituzione italiana, oltre ad essere considerato un diritto di tutti i cittadini, diventa anche un dovere sociale; pertanto lo Stato, mentre si propone e persegue la rivalutazione della dignità della persona umana nella sua integrale globalità, attraverso il lavoro, nel tempo stesso, mira alla costruzione di una società di cittadini finalmente liberi da ogni condizionamento e quindi più giusta e più umana nella quale ciascuno possa realizzare se stesso sulla base delle proprie effettive capacità, e non grazie a particolari condizioni di privilegio che nulla hanno a che fare con il merito personale e, a maggior ragione, senza che ci sia più chi ancora non riesce a soddisfare le più elementari esigenze della vita a causa delle difficoltà in cui, talvolta non per colpa sua, è costretto a dibattersi.
    Non v’è dubbio che uno dei principi cardine della società moderna è costituito, appunto, dal fatto che tutti sono chiamati a partecipare all’organizzazione politica e sociale del Paese per cui tutti, ciascuno secondo le proprie possibilità e le proprie scelte, devono concorrere al progresso materiale e spirituale, tanto che non vi è posto per gli ignavi, ed a nessuno è più dato di tirarsi indietro.
    Certamente ogni lavoro comporta fatica, impegno, responsabilità, soddisfazioni e risultati economici proporzionalmente diversi, ma ciò non significa che tutte le attività non debbano considerarsi ugualmente utili, oltre che necessarie, alla comunità specie quando esse sono opportunamente comprese in un quadro tecnologico che risponda adeguatamente alle aspettative di vera crescita morale e civile.
    D’altra parte non è difficile constatare come spesso il disagio economico costituisca la principale causa di miseria materiale e morale e come l’iniqua distribuzione della ricchezza rappresenti la principale fonte delle più pericolose tensioni sociali per cui, al di là dei velleitari fronti consumistici fine a se stessi, ma che oggi prepotentemente tendono ad ergersi a sistema, il lavoro deve essere retribuito proporzionalmente alla sua quantità ed alla sua qualità ed a tutti deve essere dato di poter disporre di quanto necessario per assicurare a se stessi ed alle proprie famiglie un’esistenza libera e dignitosa.
    Se questo precetto non trova altre limitazioni nel testo costituzionale perché la sua regolamentazione è affidata unicamente, o quasi, alla dura legge del relativo mercato, affinché non rimanga una vuota affermazione di principio in realtà è necessario che la situazione economica e sociale della comunità nazionale attraversi e superi gradualmente l’attuale fase evolutiva caratterizzata da continui adattamenti e da trasformazioni tali per cui talvolta appare quasi impossibile controllarne financo la portata.
    Se lo Stato coincide esattamente con la società e questa è interamente ordinata ed organizzata secondo il diritto oggettivo sulla base dell’ordinamento giuridico che essa stessa si è dato il quale, a sua volta, non deriva da altro ordinamento positivo ed al quale tutte le attività, sia pubbliche che private, sono sottoposte, non si vede perché spesso lo svolgimento della vita della comunità debba essere condizionato dall’arbitrio di pochi e comunque di una sola parte di essa attraverso maggioranze formalmente ineccepibili ma sostanzialmente costituite sulla base di affrettati compromessi di corridoio: laddove esistono dei diritti esistono anche dei doveri e l’esercizio degli uni comporta anche l’obbligo degli altri, ivi compresi i doveri di quanti, a tutti i livelli, sia pur legittimamente, detengono il diritto dell’esercizio della delega del potere che è e resta comunque del popolo.
    E’ risaputo che l’ordinamento giuridico di uno Stato tanto più è progredito quanto meno esso diverge dal diritto naturale, ma non sempre tale massima trova il dovuto riscontro nella pratica quotidiana dell’attività politica. Perché la nota espressione Sub lege libertas abbia il senso che le compete, e non quello che le si vuole attribuire, infatti, basta verificare l’uguaglianza dei rapporti che essa stessa presuppone e dei quali il termine invariabile è certamente l’ultimo: le buone leggi stanno alla giustizia come l’osservanza della legalità sta all’esercizio della libertà e poi, ancora, come l’ordinamento giuridico sta all’ordinamento naturale. Se i conti non tornano si è ragionevolmente indotti a ritenere che il termine variabile, costituito dall’ordinamento giuridico, non sia in linea con il termine invariabile, costituito dall’ordinamento naturale.
    A questo punto è chiaro perché deve essere compito dello Stato quello di far sì che da una parte l’osservanza della legalità determini le condizioni necessarie per l’esercizio del diritto alla libertà e che dall’altra vengano repressi gli abusi del libero arbitrio da qualunque parte essi siano perpetrati, avendo sempre presente, però, di non prestare mai il fianco alle affezioni di ‘sofistite acuta’ che, cronicizzandosi, come sotto molti aspetti sembra si stia verificando ai diversi livelli, potrebbero indurre gli stessi dottrinari ed assumerle come indiscutibili parametri di riferimento soltanto perché talvolta appaiono consacrate dalla consuetudine, anch’essa, peraltro, autorevole fonte di diritto.
    La vita sociale, in quanto vita di relazione, è costituita dal complicatissimo ma mirabile intreccio di diritti e di doveri i cui soggetti sono gli stessi destinatari delle norme giuridiche e sui quali lo Stato deve vigilare instancabilmente per tutelarli e proteggerli da qualsiasi ingerenza o violazione, fosse anche da parte dello stesso Stato. Di conseguenza, i suoi Organi, cui spetta la funzione della cura degli interessi generali della comunità nel suo complesso, devono essere particolarmente attenti al naturale svolgimento del processo evolutivo della realtà sociale, devono prevenirne gli eventuali fenomeni di pericolose devianze involutive e, con la loro instancabile attività legislativa, amministrativa, giudiziaria e di garanzia costituzionale, devono saperne guidare il corso, senza forzature, né in un senso né nell’altro, avendo sempre presente soprattutto che al centro di tale complicatissimo processo sta soltanto l’uomo e la sua dignità.
    Lo stesso Goëthe osservava che «trattato per quello che è, l’uomo diventa peggiore, ma, invece, se lo si tratta per quello che dovrebbe essere, diventa quello che dovrebbe essere». Non è forse vero che la politica è la scienza del governo dei popoli e che i popoli sono fatti di uomini di cui ciascuno è portatore di una propria inviolabile dignità? E allora perché sterilizzarla facendo sì la laicità a tutti i costi diventi la caratteristica dalla quale lo Stato si sente nobilitato? Perché non recuperare anche nel ‘politico’ un mezzo efficace perché almeno le giovani generazioni non si smarriscano nel labirinto del dubbio senza risposta?
    E’ in questa prospettiva che lo Stato prima di tutto si deve far carico di promuovere le condizioni che rendono effettivo l’esercizio di tale diritto e poi, mediante la regolamentazione delle prestazioni lavorative, la definizione dei relativi criteri retributivi, gli accordi e le organizzazioni internazionali per l’affermazione del lavoro italiano nel mondo, nonché la complessa attività nel campo dell’assistenza e della previdenza sociale, deve dettare le norme necessarie perché il principio programmatico posto a fondamento della Repubblica possa trovare la sua più concreta e più sollecita attuazione.
    Nessuno nega le difficoltà anche di ordine concettuale insite nel rapporto biunivoco capitale-lavoro e la complessità delle implicanze che esso comporta, ma a nessuno sfugge che la dignità della persona umana è al di sopra di entrambi i termini di tale rapporto in guisa che l’uno e l’altro devono considerarsi nient’altro che mezzi e mai fini, dal momento che il fine ultimo è soltanto quello dell’affermazione dell’uomo e dei suoi valori; a loro volta, infatti, tali valori sono naturalmente ordinati a più alte finalità che da una parte lo trascendono e dell’altra, nella realtà sociale, si concretizzano nell’attuazione pratica del principio di solidarietà che accomuna tutti gli esseri umani nello stesso destino e quindi li costringe a quel vincolo di comunione fraterna il quale, peraltro, costituisce l’unica garanzia di pace e l’imprescindibile presupposto di ogni forma di vero progresso civile.
    Da ciò la copiosità della produzione giuridica degli ultimi decenni per quanto concerne il lavoro, la quale, se da una parte ha fattivamente contribuito ad aggiornare il relativo codice e ad arricchire la normativa in materia di legislazione sociale, dall’altra, a causa del suo stesso caotico divenire e della disorganicità che la caratterizza, ha costretto la dottrina, la giurisprudenza, nonché tutte le parti interessate a commettere gravissimi errori e ad imbarcarsi in paurosi sbandamenti impegnandola in un’intensa quanto estenuante attività di studio e di ricerca finalizzata prima alla chiarificazione e poi alla ridefinizione degli atteggiamenti da assumere e dei comportamenti da adottare, ma che la mancanza della certezza del diritto da più parti lamentata purtroppo rende sempre meno trasparenti e spesso anche contradditori.
    E’ in questo complicato ma delicatissimo contesto organizzativo ancora in piena evoluzione che la professione di consulente del lavoro trova la sua più esatta collocazione. Se è vero che la sua attività, per dettato legislativo, consiste nello svolgimento per conto del datore di lavoro di tutti gli adempimenti previsti dalle norme vigenti per l’amministrazione del personale dipendente e, su sua delega, nel rappresentarlo in ogni altra funzione affine, connessa a tale amministrazione, essa è senz’altro destinata a spaziare in settori ben più vasti della vita economica e sociale del Paese, appunto per le rilevanti implicanze in ogni direzione che una moderna organizzazione del lavoro indubbiamente comporta.
    Infatti, ove si tenga conto del fatto che il datore di lavoro e i lavoratori si trovano su piani di sostanziale disparità perché profondamente diversa è la natura delle rispettive posizioni e delle reciproche prestazioni, è chiaro che, in una moderna visione dell’attività produttiva, un’esatta e puntuale applicazione delle norme che regolano l’intera materia costituisce per tutti una valida garanzia contro gli eventuali abusi e quindi contribuisce notevolmente alla risoluzione di situazioni di conflittualità che, malgrado la buona volontà, spesso inevitabilmente si vengono a determinare.
    Ma, al di là di una pedissequa osservanza di tali norme, se si considera che l’esercizio quotidiano della professione ed il continuo contatto con le parti interessate mettono il consulente del lavoro nelle migliori condizioni per valutarne esattamente le problematiche e conseguentemente individuarne le possibili soluzioni, egli può costituire soprattutto un prezioso punto di riferimento di indubbia attendibilità e quindi il più qualificato elemento promozionale dell’attività degli stessi Organi dello Stato per orientarli adeguatamente e opportunamente incoraggiarli nella loro diuturna opera di attuazione dei principi costituzionali nella quale, purtroppo, ancora c’è tanta strada da fare.













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